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L’amore (?) portato alle estreme conseguenze

 

di Anna Paola Lacatena- Dirigente Sociologa c/o Dipartimento Dipendenze Patologiche ASL TA

 


 

 

 

Introduzione

 

Risale al 2007 il primo studio italiano sulle violenze sulle donne. Realizzato dall’Istat su di un campione di oltre venticinquemila donne, tra i sedici e i settant’anni, lo stesso evidenzia come circa 6,7 milioni di donne subiscono ogni anno violenza fisica e sessuale (quasi quattro donne su dieci).

Il 70% dei casi è commesso dal partner attuale o dall’ex. Solo il 18% delle vittime ritiene che le violenze consumate tra le mura domestiche siano veri e propri reati. Nel 93% dei casi le stesse donne non denunciano quanto subito.

Ci sarebbe da chiedersi come mai, donne in carriera, intelligenti e preparate accettino di subire violenze all’interno del menage di coppia.

Anni di subalternità culturale e di educazione alla subordinazione, con buona probabilità, hanno rafforzato i patterns sociali maschili e patriarcali.

Per i quotidiani e i notiziari, ancora oggi, sembra opportuno insistere sulla dicitura “delitto passionale”, come se la forma estrema di violenza, ossia l’omicidio, altro non fosse che un sentimento positivo come l’amore portato, però, alle sue estreme conseguenze.

L’assetto normativo italiano, dunque, non sorprende se fino al 1996 ha considerato la violenza sessuale come reato non contro la persona ma contro la morale.

Secondo i dati ufficiali, il fenomeno è più diffuso al Nord dell’Italia, sebbene negli ultimi tempi, il gap sembra essersi quasi del tutto azzerato rispetto all’area più meridionale del paese.

Una domanda, a questo punto, appare di grande e sostanziale interesse: quanto il modello relazionale proposto dalla Chiesa Cattolica ha influenzato la prassi violenta diffusa all’interno del contesto famiglia nel nostro paese e nei paesi a chiara influenza cattolica come l’Irlanda (massimo esempio di patriarcato in Europa) e la Spagna? Quanto questi, unitamente ad altri fattori, non abbiano agito anche sulla crisi economica abbattutasi proprio su queste realtà culturali e territoriali?

La declinazione cattolica del ruolo della donna, soprattutto all’interno delle mura domestiche ma non solo, di madre e moglie, ha veicolato un modello di modesta reciprocità a vantaggio di una lettura in cui l’uomo è più vicino a Dio di quanto non lo sia la donna.

La teologa Virginia Ramey Mollenkott, nel 1991 nel saggio Dio femminile, ha teorizzato proprio questa differenza tra il sesso maschile e quello femminile, dove il primo è stato indotto, credendosi più simile a Dio, a costruire relazione di dominio e sottomissione.

La potenza delle parole liturgiche non trovano origine in se stesse ma riprendono una prassi di subalternità vecchia come la notte dei tempi. Pur nella possibilità di sfuggire ad una simile narrazione, anche alla luce della straordinaria figura della Madre di Cristo, la Chiesa Cattolica ha scelto di non legittimare la parità tra i sessi.

Importanti risultati sono stati riportati dalle lotte femministe, costringendo la società e lo Stato a rivedere alcune posizioni; per quanto riguarda la Chiesa, invece, non solo le posizioni non si sono aggiornate ma in alcuni casi si sono rinforzate fino a cristallizzarsi.

Eppure il Concilio Vaticano II e la straordinaria portata del pontificato di Giovanni XXIII avevano fatto ben sperare così come quel: “Noi siamo oggetto da parte di Dio di un amore intramontabile: è papà, più ancora è madre”, pronunciato da Giovanni Paolo I, riprendendo il libro del Profeta Isaia (Is 49,15).

Difficile a questo punto un pieno cambiamento di rotta che non preveda una sorta di rivisitazione in chiave teologica e filosofica dell’intero costrutto del cattolicesimo. Difficile almeno quanto necessario per le donne e per le sofferenze, gli abusi, i soprusi subiti anche in nome di un vincolo matrimoniale di cui si fa fatica a pensare debbano occuparsene sacerdoti e alti prelati ma soprattutto uomini celibi.

Nel linguaggio di Sant’Agostino ricorrono tre termini per definire il concetto di amore cristiano: caritas, dilectio e amor.

L’amore si ricollega a un desiderio di qualcosa, un desiderio che è buono se tale è il desideratum. L’amore è il segno di una mancanza, di una non-autosufficienza; esso si configura come un’aspirazione che trova al di là di sé la propria realizzazione. L’amore può rivolgersi al mondo, oppure può indirizzarsi verso una persona, sebbene il più desiderabile rimane quello rivolto a Dio che è unica fonte di salvezza.

Ben diversa è la sua posizione rispetto a ciò che egli concepisce come concupiscenza: “Non amavo ancora e amavo amare” .

L’amore portato alle sue estreme conseguenze è per il filosofo, vescovo e teologo romano, esperienza della morte.

Il protagonismo negato della donna anche all’interno del reato che la vede vittima è stato, in parte, teorizzato dal Premio Pulitzer Susan Faludi nel suo saggio Il sesso del terrore.

Riprendendo i tragici fatti dell’11 settembre 2001, la giornalista e scrittrice statunitense, ha sottolineato come la lettura degli eventi può dividersi in due: da una parte l’eroismo maschile, dall’altra il dolore delle donne (madri, vedove, vittime).

L’attacco alle Twin Towers segnò la morte di un numero maggiore di uomini rispetto alle donne, eppure furono quest’ultime ad assurgere a simbolo della sofferenza e del dolore (mater dolorosa), prede della vigliaccheria dell’azione terroristica.

Diverso fu quando in scena fu chiamato ad apparire il coraggio, la forza, la reazione del popolo di Groud Zero. Protagonisti assoluti, in questo caso, furono gli uomini.

 


 

Il culto della Gran Madre e l’Egitto antico

 

Fin dal secolo scorso vari studiosi hanno ipotizzato che nelle epoche più antiche si siano sviluppate delle società matriarcali, alla cui origine è possibile posizionare la venerazione della Grande Madre, una divinità femminile che personificava l’universo e tutte le cose viventi.

La grande Madre impersonava la Natura e le Stagioni. La capacità di dare la vita e la morte. Poi, con il diffondersi del dio maschio, la civiltà divenne sempre più maschilista, controbilanciando l’idea generatrice della vita con le dee-demoni. La struttura della società era cambiata, da una società di uomini cacciatori e di donne raccoglitrici d’erbe e bacche, dedita al nomadismo, divenne stanziale e nacquero gli artigiani e gli allevatori. La grande madre era Ishtar, nuda perché dea della Verità, simile alla Proserpina romana.

Durante l’ inverno Ishtar si portava nel mondo dei morti e sulla terra non albergava il sole, non cantavano gli uccelli, si digiunava in segno di lutto. Con l’avvento di Marduk, la donna venne relegata in casa, proprietà dell’uomo. Comparve Lilith, la bellissima creatura della donna, lussuriosa ma sterile.

Nei secoli seguenti la cultura sempre più maschilista ha creato una serie di figure chimeriche per demonizzare la donna, limitandone il potere e cercando in questo modo di rafforzare quello maschile. Sono state ritrovate, infatti, delle grande statue in pietra, raffiguranti grandi donne con caratteristiche sessuali accentuate: fra le più belle ricordiamo la Venere di Willendorf o quella di Tarxien a Malta.

La Venere del Neolitico ci appare come generatrice di vita, spesso raffigurata nell’atto di partorire, nuda e gravida.

Tutti i documenti trovati ci consentono di ipotizzare l’esistenza, nel Neolitico, di una società pacifica e con un sistema politico retto da donne o sacerdotesse, che governavano su un clan dove vigeva parità tra uomini e donne.

Questa società scomparve lentamente, intorno al V millennio, quando dalla Russia e dal Mare Nero si affacciarono popolazioni indoeuropee, praticanti allevamento e caccia.

Intorno al 1500 a.C. queste popolazioni misero fine al culto della Grande Madre, imponendo una cultura basata sulla forza e sulla trasmissione del potere maschile.

Attraverso gli scritti e le immagini risalenti all’antico Egitto, gli studiosi hanno rimarcato il grande potere e la dignità di cui godeva la figura femminile. Queste caratteristiche, prevalenti nell’antico Egitto, fanno della stessa un unicum di parità di diritti e di libertà di azione.

Come mai gli Egizi ebbero una simile concezione della donna? Per rispondere a questa domanda dobbiamo rifarci alle figure femminili che componevano il pantheon divino di quell’area geografica e storica. Il principio creatore affermava che “Io sono lui- lei”, una figura ermafrodita, denominata Atum. Dunque, sulla terra ci doveva essere una coppia che facesse da tramite tra il mondo terreno e quello celeste, ossia il faraone e la Grande sposa reale.

La donna egizia, a qualsiasi condizione sociale appartenesse, poteva possedere beni, acquistarne, stipulare contratti, ereditare beni, gestire attività commerciali e, addirittura, accedere ad alte cariche dello stato, come il Visir.

La madre era vista come il perno della famiglia, ma la sua autorità non derivava da questa posizione. I diritti acquisiti alla nascita non venivano modificati in seguito al matrimonio e alla maternità. Anche la capacità giuridica era completa fin dalla maggiore età e al momento del matrimonio.

Interessante è il fatto che la donna egiziana non conobbe mai la pesante tutela, subita altresì dalla donna greca e romana, del padre e del marito; la potestà dei genitori era solo una forma di protezione. Riguardo alla scelta dello sposo, infine, la donna godeva di una notevole libertà e, se il matrimonio non si dimostrava felice, era libera di divorziare, riprendendosi i beni portati in dote.

Il modello femminile a cui tutte si ispiravano era quello della dea Iside, moglie esemplare, sorella affettuosa, maga, dispensatrice di prosperità e di ricchezza, detentrice della conoscenza dei misteri dell’universo e vittoriosa sulla morte.

 


 

Dall’antica Grecia alla società attuale

 

Le donne greche lavoravano e accudivano i figli senza uscire quasi mai di casa.

Il matrimonio poggiava su un accordo formalizzato tra sposo e sposa in cui era presente la consegna della dote all’uomo. Stipulato l’accordo tra suocero e genero, la donna non esprimeva il proprio consenso. Il trasferimento della stessa costituiva il compimento del matrimonio, nel quale si realizzava l’unione: la sposa cambiava casa e padrone, passando dal padre allo sposo.

L’età ritenuta idonea alle nozze si aggirava tra i 14 e i 16 anni, ma a volte le spose erano anche più giovani, mentre l’uomo greco convolava a nozze all’età di trent’anni circa, dopo aver fatto esperienza di concubine e giovinetti di sesso maschile, soprattutto nei contesti della vita militare.

La moglie non era altro se non uno strumento per la procreazione, sebbene l’usanza ateniese faceva sì che lei fosse un’eterna minore a cui lo sposo/ tutore doveva garantire tutti gli atti politici. Quando una donna era implicata in un processo era il marito che la rappresentava in tribunale.

La dote era di proprietà della donna: lo sposo, stipulando il contratto, si riconosceva debitore della dote e forniva una garanzia ipotecaria sui suoi beni fondiari. Egli aveva in gestione la moglie e la dote, ne utilizzava i redditi, finché a tutta la durata del matrimonio. Il marito era un semplice usufruttuario, poiché i veri destinatari della dote erano i figli, che ne entravano in possesso alla morte della genitrice.

Allo stesso modo, nell’antica Roma le donne non avevano diritti: dovevano accudire i figli e mantenere la casa.

Il matrimonio romano era un accordo stipulato tra due famiglie: non esisteva nessun documento scritto, ma c’era solo la presenza di testimoni al momento dell’accordo.

La mater familias quando si sposava, chiedeva al marito se lo stesso voleva diventare il suo pater familias e con questa interrogazione essa indicava che l’uomo sarebbe diventato giuridicamente, un padre-padrone al potere del quale lei e i figli si sarebbero assoggettati.

Il nome di moglie/madre indica che a Roma le donne erano considerate dagli uomini essenzialmente secondo la loro capacità di procreare, sebbene il nome di mater familias non era associato al parto, ma al matrimonio.

Tuttavia, per l’amministrazione dei propri affari, le donne erano considerate abili e alcune anche molto stimate: la maggior parte di loro, infatti, amministrava in prima persona il proprio patrimonio, ad eccezione della dote, affidata al coniuge. Esse potevano disporre delle loro ricchezze con il testamento, senza sottomettersi all’autorità di un garante.

C’erano dei mestieri prettamente femminili, come la levatrice, l’attrice, la massaggiatrice, la sarta, la lavandaia. Talvolta le donne della Roma antica erano anche albergatrici, proprietarie di taverne, legate anche all’ambiente della prostituzione. Dai documenti ritrovati si conoscono donne commercianti e anche proprietarie di navi.

E’ nel primo periodo imperiale (Giulio - Claudio) che la donna comincia ad essere soggetto più attivo nella società romana, sebbene esclusa dai diritti civili.

Il matrimonio, infatti, con il passare del tempo, divenne da passaggio di proprietà della donna, ad un rapporto regolato dall’affectio maritalis, con la possibilità di annullare il vincolo in caso di cessazione dell’intenzione.

Da qui derivò il diritto di divorzio, con il riconoscimento di analoghi diritti per l’uomo e la donna.

Nella società medioevale, quest’ultima non partecipava alla vita pubblica e le sue mansioni erano relegate alla cura della casa e dei figli, garantendo la riproduzione e la trasmissione dei patrimoni propri e accumulati.

La sua rappresentanza giuridica era esercitata dal padre o dal marito. Ad influire sulla concezione medievale della donna influirono certamente le parole di S. Paolo per il quale acclarata era l’inferiorità femminile.

La Chiesa cattolica unitamente al ceto aristocratico, crearono ben più dei presupposti del culto delle due tipologie più comuni: la donna angelicata e la dama dell’amor cortese, padrona del cuore dell’amato.

Eppure nel prosimetro giovanile Vita Nova, Dante sembra inserirsi nel dibattito poetico, scrivendo un’opera rivoluzionaria nella struttura almeno quanto nella poetica e nella filosofia dell’amore. Il poeta fiorentino sembra sovvertire i canoni erotici feudali proclamando che l’amore di un cuore puro doveva appagarsi nell’elogio unilaterale della donna amata, senza pretendere di essere ricambiato.

Diverso è il senso dell’Orlando Furioso dell’Ariosto. Il furore del protagonista appare come il ribaltamento sarcastico della sublimazione dell’amor cortese, assurto a vera e propria platonica idealizzazione all’interno della civiltà rinascimentale.

Nella fattispecie l’amore e la fedeltà alla donna non conducono l’uomo a una condizione spiritualmente superiore, ma lo degradano fino a spingerlo ad una condizione disumana. Orlando nudo si contende con altre belve la carne cruda di cui si ciberà, con la conclusione che la cavalleria, portata sino alle estreme conseguenze, altro non è che follia e autodistruzione.

Anche nel Rinascimento, in continuità con il Medioevo, il matrimonio continua ad avere come scopo precipuo quello di assicurare la discendenza, migliorare e consolidare la posizione sociale ed economica della famiglia. Il matrimonio non appare determinato dall’amore, pur essendo un passo importantissimo nella vita di ogni individuo ma dalla volontà/necessità di garantirsi alleanze strategiche. La posizione di una donna finisce per essere definita dagli accordi stipulati dai suoi genitori .

Tra il ‘700 e il ‘800, anche grazie alle tre grandi rivoluzioni (dei Lumi, Industriale e Francese) si assiste a tutta una serie di cambiamenti. La stabilizzazione demografica, la diminuzione della mortalità, la separazione dell’economia domestica da quella della produzione, i cambiamenti storici e politici hanno segnato il passaggio dalla visione di famiglia come unità di produzione economica a unità incentrata sulla scelta e sull’emozione.

Dall’autorità al legame affettivo, la famiglia sveste molti dei panni indossati sino a quel momento.

Il Codice Napoleonico del 1804, favorendo per evidenti ragioni economiche l’apertura del sistema famiglia anche all’esterno, fondò un Diritto di Famiglia che riconosceva la dipendenza delle donne dall’autorità del marito.

Il Codice introdusse una nuova concezione del matrimonio, inteso come patto tra individui e non più tra famiglie. Abolì l’istituto della patria potestà oltre alla maggior età dei figli anche se si è ancora lontani dal colmare il divario tra uomo e donna nell’ambito della famiglia coniugale.

Finalità del matrimonio rimangono la riproduzione e la continuazione della stirpe.

 


 

Tradimento, adulterio e pene

 

Nel libro Tradimenti, Gabriella Turnaturi sostiene che quando lei o lui iniziano un viaggio fuori dal noi e che prescinde dal noi, secondo le attese sociali e per i precetti religiosi essi tradiscono.

Paradossalmente, invece, essi sembrano provare a salvare la loro individualità dalla stretta mortifera di un noi che anchilosa l’anima non consentendo cambiamenti.

Sempre per la sociologa, l’amore è un gioco di forze dove si decide a quale dio offrire la propria esistenza: al dio della felicità che sempre accompagna la realizzazione di sé, o al dio della sicurezza che molto spesso si affianca alla negazione di sé.

Non si tratta di una pura questione semantica precisare che il tradimento è sempre prodotto a danno del noi e non certo del tu.

La percezione orgogliosa del tradimento personale è dato dalla piena identificazione con un meccanismo simbiotico che quel tu lo ha tradito, azzerandolo, già da tempo. Il tradito, però, sentendosi tale declina l’atto del tradente come cambiamento, come negazione della precedente sintonia (?!). Se il tradito riuscisse ad andare oltre la mera sfera personale e leggesse gli eventi in termini individuali, si renderebbe conto che il tradente sta offrendo alla coppia una possibilità reale, molto più reale di quella di continuare a negare se stesso.

Qui potrebbe davvero offrirsi la possibilità alla coppia di crescere, nel cambiamento. Facile a dirsi, difficilissimo a realizzarsi, soprattutto quando è la donna a non essere, nella percezione del partner, più la stessa.

La fiducia nell’altro non deve, infatti, diventare la gabbia del come tu mi vuoi, pena l’impossibilità di essere veramente chi si è.

In ogni amore, da quello genitoriale a quello coniugale, c’è una qualche forma di possesso che frena la crescita individuale, costringendo il singolo a definirsi entro paletti e recinti stabiliti da altri.

Quello stesso amore, però, incapace di contemplare il tradimento/cambiamento è esso stesso prigioniero della paura di vivere e, dunque, per molti aspetti poco adulto.

In ogni allontanamento dal porto sicuro risiede la possibilità della piena realizzazione, dell’emancipazione e, inevitabilmente, anche del tradimento.

Ma che amore è un sentimento che non sa sfidare l’ombra, che necessità di certezza assoluta, che pretende di esercitare potere sull’altro?

Non è forse negazione di se stesso e dell’oggetto d’amore? Non è il tentativo di imporre nuove regole alla vita stessa, accettando di barare pur di non sentire mai quella sensazione di abbandono, perdendo la possibilità di sentire fino in fondo se stessi?

Rispetto all’adulterio, l’antica Grecia praticava quella che oggi chiameremmo “tolleranza zero”. Infatti, gli adulteri andavano incontro a vere e proprie umiliazioni e violenze infamanti (rasatura pubica, violenza anale mediante un rafano, ecc.).

A Locri l’adultero veniva accecato, a Gortina ci si limitava a punirla con una pena pecuniaria.
Eschine, facendo riferimento a Solone, annota che alla donna adultera è fatto divieto di partecipare ai sacrifici pubblici, per timore che ella possa corrompere altre donne. Qualora vi partecipasse o si adornasse, è legittimata la lacerazione pubblica delle vesti da parte di chiunque, la rimozione degli ornamenti e le percosse, badando tuttavia di non ucciderla o renderla storpia.

Ben poche erano le occasioni per la donna dell’antica Roma di commettere adulterio, sempre sorvegliata e priva di autonomia di movimento anche all’interno delle mura domestiche.

Le pene tramandate dalla tradizione letteraria, però, appaiono durissime. Poteva essere scacciata con infamia dalla casa o addirittura poteva essere uccisa. Inizialmente la punizione era privata: ius occidenti esercitato dal marito e dal padre dell’adultera. L’adulterio era considerato reato solo se veniva commesso dalla donna. Era addirittura contemplata la pena di morte qualora il pater familias lo avesse ritenuto necessario.

Le donne dichiarate adultere dinnanzi alla Legge, soprattutto se considerate di rango inferiore (le lavoranti nei circhi, nei teatri, le prostitute), venivano private a scopo punitivo del diritto/possibilità di contrarre matrimonio legale e della facoltà di trasmettere pieni diritti civili.

Punizioni di non minore intensità venivano inflitte alle donne romane anche in presenza di situazioni considerate meno gravi come bere vino.

E’ solo con Augusto che, volendo dare nuovo impulso alle nascite dell’Impero, l’adulterio viene sottratto all’arbitrio del singolo cittadino, riconfermando, però, l’importanza del vincolo matrimoniale. Secondo la Lex Iulia de adulteriis, il marito non aveva più il diritto di uccidere la moglie adultera. Al massimo lo stesso poteva propendere per il ripudio della consorte, pena l’accusa di lenocinio, conservando intatto, però, il diritto di uccidere l’amante.

Bisognerà attendere tre secoli prima di veder affiancata alla finalità procreativa del matrimonio anche quella comunitaria. E’ in questi frangenti che sembra attenuarsi la disparità in tema di infedeltà anche se più sul piano dei doveri che non dei diritti.

Il cristianesimo non sembra porsi la questione della parità, legittimando, però, nel migliore dei casi

una colpevole indifferenza nei confronti dell’uguaglianza dei sessi.

 


 

La parentesi fascista

 

Al fine di assicurarsi un sostanziale incremento demografico, anche in ragione delle perdite legate alle varie campagne belliche, il regime fascista diede vita ad un’imponente legislazione orientata al sostegno delle nascite e della famiglia come cuore pulsante della società.

Interessanti, a questo proposito, sono due discorsi pubblicati su “Gerarchia”, rivista ufficiale del fascismo diretta da Margherita Sarfatti, tra i più considerati biografi del Duce.

Nel 1928 Mussolini parla della missione procreatrice della famiglia, in quanto: “il coefficiente di natalità non è solo l’indice della progrediente potenza della Patria, ma l’unica arma del popolo italiano [...] In un’Italia tutta bonificata, irrigata, disciplinata, cioè fascista, c’è posto e pane ancora per 10.000.000 di uomini. 60.000.000 di italiani faranno sentire il peso della loro massa e della loro forza nella storia del mondo”.

Nel 1939 esce, sempre sulla stessa rivista, un brano firmato “Ellevì”, che denuncia i pericoli del femminismo e dell’ambizione borghese, come manifestazioni dell’individualismo, nemico fondamentale della famiglia: “E poiché la donna intellettuale è il volto femminino della vanità borghese, e quella professionista e addottorata è l’ideale borghese dell’ambizione democratica, la nostra Rivoluzione vuol sostituirvi un modello muliebre più fecondo e più sano. [...] La donna intellettuale, che l’aurea mediocrità ancora predilige, è una tra le figure meno necessarie alla saldezza dell’istituto familiare e al potenziamento della razza. Ci riferiamo a quella che custodisce e tramanda la tradizione del salotto. [...] Compagna del guerriero non può essere colei che porta a mensa l’arida dialettica della saccenza, e che, titoli alla mano, misura le distanze coniugali per giustificare le deviazioni appellandosi ai diritti illimitati del sentimento”.

Alla donna, dunque, non compete in questi anni che la cosiddetta “missione procreatrice”, sebbene proprio negli anni ‘30 si cominciano a diffondere, nelle città e nelle campagne, le prime pratiche di controllo delle nascite.

I Patti Lateranensi del 1929 segnano la convergenza di visione tra Stato e Chiesa, in una sorta di reciproco sostegno alla collocazione della donna fuori dai contesti sociali e politici che contano.

 


 

La nascita del “Nuovo diritto di famiglia”

 

E’ con gli anni ‘80 che la donna esce dalla nicchia imposta e cristallizzata propria della prima parte del secolo. Poco consapevole della propria sessualità, subisce l’idea dell’adulterio come colpa di gravità non paragonabile a quello perpetuato dall’uomo.

L’influenza del femminismo statunitense si fa sentire in Europa e, in seconda battuta anche in Italia, con una nuova impostazione del rapporto uomo-donna che si fa più paritario in termini normativi ma non ancora in chiave culturale.

Rivolta femminile” denuncia il matrimonio e la famiglia, come luogo della dominazione maschile; “Lotta femminista” lancia la campagna del “salario alle casalinghe”; il movimento delle donne comuniste, Udi, esercita una vera e propria lobby sugli organi decisionali dello Stato italiano per alleggerire l’oppressione femminile. E’ il Movimento delle donne italiane, legato al Partito radicale, che verso la metà degli anni ‘70 diviene il principale riferimento in termini di pressione e sensibilizzazione a favore dell’autonomia femminile.

Contraddittorie, però, sono le situazioni che si determinano in questi anni.

Da una parte, infatti, le donne rivendicano i propri diritti dall’altra la cultura di massa veicola messaggi di seduzione al femminile che, in modo neanche discreto e serpeggiante, riporta ai soliti stereotipi e luoghi comuni.

Il ridimensionamento della figura padre- marito ha conosciuto una prima ratificazione a livello legislativo con la Legge 151 del 19 maggio 1975, il “Nuovo diritto di famiglia”. Questa disposizione è partita dalla necessità di rafforzare l’uguaglianza tra i coniugi e ha finito poi per investire anche altri ambiti relativi alla famiglia, ossia l’atto di matrimonio, le cause di invalidità, i regimi patrimoniali, il diritto di successione.

In estrema sintesi, le più importanti innovazioni possono essere così sintetizzate:

 

Età del matrimonio. I minori di età non possono contrarre matrimonio. Il tribunale, su istanza dell’interessato, accertata la maturità psicofisica e la fondatezza delle ragioni addotte, sentito il pubblico ministero, il genitore e il tutore, può con decreto emesso in camera di consiglio ammettere per gravi motivi al matrimonio chi abbia compiuto i sedici anni.

 

Diritti e doveri dei coniugi. Con il matrimonio il marito e la moglie acquistano gli stessi diritti e assumono gli stessi doveri. Dal matrimonio deriva l’obbligo reciproco alla fedeltà, all’assistenza morale e materiale, alla collaborazione nell’interesse della famiglia e alla coabitazione. Entrambi i coniugi sono tenuti, ognuno in relazione alle proprie sostanze e alla propria capacità di lavoro professionale o casalingo, a contribuire al bisogno della famiglia.

 

Cognome della moglie. La moglie aggiunge al proprio cognome quello del marito e lo conserverà durante lo stato vedovile, fino a nuove nozze.

 

Dovere verso i figli. Il matrimonio impone ad ambedue i coniugi l’obbligo di mantenere, istruire ed educare la prole, tenendo conto delle capacità, inclinazione naturale e aspirazioni dei figli.

 

Il regime patrimoniale. Il regime patrimoniale legale della famigli, in mancanza di diversa convenzione stipulata secondo l’articolo 162, è costituito dalla comunione dei beni.

 

I coniugi possono convenire che ciascuno di essi conservi la titolarità esclusiva dei beni acquistati durante il matrimonio.

La parte che riguarda “Diritti e doveri che nascono dal matrimonio” (art. 143-148) è quella che maggiormente riflette i principi di uguaglianza che sottendono la riforma.

I coniugi acquisiscono con il matrimonio gli stessi diritti e doveri e sembra enfatizzarsi un maggior rispetto della identità della moglie. Il principio di uguaglianza si riflette soprattutto nelle norme che regolano la patria potestà e le scelte di indirizzo della vita familiare. Un altro aspetto nuovo è la possibilità per i coniugi di avere, indifferentemente, un lavoro “professionale” o “casalingo”: questa affermazione riconosce l’attività della donna all’interno delle mura domestiche, come una vera e propria professione.

Segnali importanti giungono dalla società civile con i Referendum relativi al divorzio e all’aborto.

Si istituisce, poi, in tema di regime patrimoniale, la “comunione dei beni”, per cui entrambi i coniugi sono considerati ugualmente proprietari dell’intero patrimonio familiare costruito nel corso del matrimonio e hanno pari diritto di amministrarlo.

A partire dagli anni ‘80 e ‘90 si assiste alla problematizzazione e alla medicalizzazione sempre più spinta della maternità. Aumentano le nascite fuori dal matrimonio e si fa largo una certa instabilità coniugale, aprendo a nuove forme di famiglia che prevedono un’attenzione particolare del Legislatore in termini di affido, adozione, procreazione artificiale e assistita.

I risultati più incoraggianti del movimento di emancipazione femminile si registrano nei paesi democratici e laici, che riconoscono l’uguaglianza di uomini e donne di fronte alla legge. Ancora oggi, però, in molti regimi autoritari e in paesi sottosviluppati troppo poco viene fatto per favorire analoghi meccanismi.

In ogni caso, il divario tra norma e realtà continua a segnare importanti differenze. E’ ancora sostanziale la differenza di accessibilità a cariche prestigiose in ambito politico e aziendale per le donne, determinando un ingiustificato gap di retribuzioni tra lavoratori uomini e lavoratrici donne.

 


 

Conclusioni

 

Eros e Thanatos al tempo della crisi

 

Nei primi sei mesi del 2012, le donne uccise in Italia da mariti, ex, compagni e conoscenti sono state circa 65, tanto da indurre la cronaca a definire il fenomeno in termini di femminicidio.

In realtà la denominazione riprende un pronunciamento della Corte Interamericana che con sentenza del 2009 ha condannato il Messico per i tristi fatti accaduti a Ciudad Juarez, dove dal 1994 ad oggi si contano circa 500 donne scomparse e un analogo numero di donne di cui sono stati ritrovati solo pochi resti. Il fenomeno analizzato dai migliori agenti dell’FBI, ha fatto pensare ad una società maschilista, patriarcale e fortemente conservatrice, dove la possibilità di modificare lo status quo sia completamente negato alle donne che, non riuscendo ad arrivare negli USA, finiscono per restare nella città più ricca di fabbriche dell’intero territorio messicano.

Queste donne che hanno lasciato le proprie case, diventando capo famiglia in ragione del sostentamento garantito alla stessa attraverso i proventi del loro lavoro, hanno finito per subire le rimostranze crudeli e violenti di una società incapace di modificarsi e, più ancora, di evolvere.

Secondo una ricerca Eurispes del 2007, in Italia gli omicidi al femminile vengono commessi solo per il 2% da sconosciuti. In tutti gli altri casi si tratta di uomini che hanno dichiarato di amare le loro vittime.

La separazione (con anche solo il sospetto di un nuovo legame), il raptus improvviso, la crisi economica sono le prime tre voci che, comunque, in nessuna maniera possono giustificare la violenza agita a danno di mogli, compagne o ex.

C’è da chiedersi allora: l’amore che uccide può definirsi amore? O piuttosto la sua negazione che, condotta alle sue estreme conseguenze, non accetta che l’altro possa concepirsi ed esistere al di fuori di una struttura di potere e dominio?

La cultura del possesso e della negazione dell’Altro/a in cui siamo immersi ci induce, parafrasando Anna Arendt a banalizzare il male, attribuendo all’omicidio commesso da un uomo a danno di una donna la dicitura di “delitto passionale”.

E’ necessario, dunque, riportare nel giusto alveo tali crimini, sottraendoli alla linea puramente emozionale per riconsegnarli alla sfera della sopraffazione e del possesso dell’altro.

Se Eros e Thanatos stringono nella mitologia una sorta di simbiosi che, per sua stessa natura, di rivela mortifera per entrambi, è opportuno promuove la più moderna cultura dell’alleanza costruttiva tra uomini e donne per se stessi e per le nuove generazioni.

La morte non è degenerazione dell’amore. Con quest’ultimo non ha nulla a che vedere. E’ la sua negazione. E’ la pretesa che l’Altro non sia se non per se stessi. E’ oltraggio dell’incontro. E’ morte per l’Ego non per l’Io da cui, imprescindibilmente, può discendere il Noi reale ed adulto.

Se con il termine famiglia si intende un’istituzione sociale composta da persone direttamente legate da rapporti di parentela e legami di reciprocità, all’interno del quale i membri adulti hanno la responsabilità di allevare i bambini, la parentela va intesa come sistema di rapporti fondati sulla discendenza tra consanguinei (nonni, genitori, figli ecc.) o sul matrimonio (si parla di affini).

L’istituzione formale del matrimonio, nella sua veste sia civile che religiosa è, poi, l’unione sessuale socialmente riconosciuta e approvata tra due individui adulti, tramite atto pubblico.

Nel tempo, lo studio della famiglia e della vita familiare è stato affrontato in maniera differente da sociologi di scuole diverse.

Le principali interpretazioni teoriche della famiglia riconducono all’approccio funzionalista ove la famiglia svolge compiti che contribuiscono a soddisfare i bisogni fondamentali della società e a preservarne l’ordine sociale e a quello marxista che mette in discussione la visione della famiglia come regno dell’armonia e dell’uguaglianza. Non meno interessanti sono le nuove prospettive, peraltro più attente alle recenti trasformazioni sociali, economiche e politiche.

E’, infatti, innegabile il ridisegnarsi dei modelli familiari, soprattutto negli ultimi trent’anni e in Occidente:

-è diminuita la propensione al matrimonio come fondamento della famiglia (deistituzionalizzazione);

- è aumentata l’età media al matrimonio (aumento scolarizzazione, individualizzazione crescente, famiglie “marsupiali”);

- è aumentato il tasso di divorzi;

- sono aumentate le famiglie monoparentali (con un solo genitore);

- sono aumentate le famiglie ricostituite (famiglia allargata).

Discutibile appare la visione della famiglia nucleare quale struttura equipaggiata per affrontare le richieste della società industriale: l’uomo, così come la donna, lavora fuori casa (ruolo strumentale di male breadwinner), ma allo stesso tempo si occupa della casa e dei figli non rinunciando o addirittura consolidando il ruolo affettivo.

Da tutto ciò la famiglia, dunque, non può intendersi esclusivamente come un’insieme volto alla cooperazione fondato su interessi comuni e sostegno reciproco. In essa, infatti, finiscono per consumarsi squilibri di potere e disparità di benefici.

Nonostante i modelli familiari abbiano subito indiscutibili trasformazioni, la famiglia continua, quando non fortifica, i suoi avamposti culturali segnando un solco profondo tra la percezione e l’essenza della stessa nella post-modernità.

La famiglia si connota di sicurezza, di accoglienza, di tranquillità più nell’aspettativa dell’individuo che nella realtà del suo esplicitarsi.

E’ il sogno, il desiderio, il bisogno tratteggiati dagli stereotipi di cui è stata fatta oggetto nel corso del tempo nell’immaginario individuale e collettivo ad ossigenare un’istituzione dal fiato sempre più corto.

Nella realtà la famiglia non può dirsi esente, e non potrebbe essere altrimenti, dagli scossoni e dagli urti del cambiamento culturale e della crisi globale.

Ha subito la scure della concorrenza della multimedialità sul piano della funzione della socializzazione. Ha delegato sempre più ai nuovi strumenti di comunicazione la progettualità educativa e la sua prima messa in opera di cui ha detenuto la piena esclusività sino alla metà del secolo scorso.

Se la realtà si è aggiornata, però, l’idea no.

Nella mente dei più giovani dal futuro negato e dal passato tradito, rinunciare alla dolcezza del nido sicuro, della famiglia come accoglienza e sicurezza ( a questo punto unica fonte) significherebbe la completa disfatta sul piano del sociale significativo e dell’ istituzionale di riferimento.

Nella mente dei meno giovani dal futuro tradito e dal passato negato, rinunciare ad offrire un nido sicuro, una famiglia come accoglienza e sicurezza, significherebbe la completa disfatta sul piano sociale e personale.

Il godimento sessuale è probabilmente al vertice delle sensazioni di piacere, concentrato a regalare erlebnisse sempre più forti e variabili, sebbene irrealizzabile nel suo intento di gratificazione senza ulteriore necessità di nuovi addestramenti, istruzioni, consigli, ecc.

L’umano bisogno affettivo finisce per commutarsi in sessualizzazione.

La conoscenza, il messaggio, la mail, il contatto da social network, la “storia” breve si con figura come boccata d’ossigeno nell’apnea di rapporti di coppia o familiari che mettono in crisi la sopravvivenza individuale.

Il godimento sessuale o, più semplicemente, il suo consumo last minute finisce per farsi substrato di una produzione culturale dell’immortalità e modello (o metafora) supremo dello sforzo di trascendere la mortalità individuale e di protrarre l’esistenza umana al di là delle durata della vita reale dei singoli esseri umani.

Rispetto all’evocazione dell’immortalità dalla mortalità, il sesso si consegna a specchio culturale di una post-modernità da costante e continua iper- prestazione.

La solidità, la profondità, la stabilità nella nostra società attuale sono vissuti come vincoli insostenibili, da fronteggiare con le armi della flessibilità e della mobilità continua. L’erotismo emancipato dai lacci della riproduzione e dell’amore ben si presta a tutto ciò, come se fosse concepito a misura di identità flessibili, evanescenti e sempre pronte a ridisegnarsi, così come il sociologo inglese Anthony Giddens suggerisce conferendogli la dicitura di “sessualità duttile” (1995).

Emily Dubberley (2006), osserva che ormai procurarsi sesso è come ordinare una pizza. Un po’ come collegarsi ad Internet per ordinare qualcuno con cui stringere una fugace relazione sessuale. Non per amare o sentirsi amati ma per avere la sensazione di esistere. Non occorre impegnarsi nel corteggiamento per conquistare l’approvazione di un partner, ciò significa, però, perdere quello che rendeva incerto l’incontro sessuale, e proprio per questo emozionante.

Il gioco diviene la comodità, la riduzione di ogni sforzo, provando conseguentemente e keinesianamente ad ottenere il massimo risultato desiderato.

In un’epoca di riassestamento dei valori e di revisione delle abitudini socialmente e storicamente costruite, nessuna norma di comportamento può essere data aprioristicamente né restare incontestata a lungo.

In ogni angolo della Lebenswelt, la cultura postmoderna invita al piacere facile e sessuale, diffondendo significati erotici ovunque e per chiunque.

Sembra configurarsi una situazione fortemente carica di nevrosi: da una parte l’incontro erotico come fusione dei ruoli, dall’altra una piena confusione di ruoli che indebolisce ciò che incoraggiamo.

Ognuno finisce per scrivere un proprio vademecum fintamente sentimentale che non può essere avulso dall’ambiente e dai condizionamenti dello stesso.

Ridisegnata e ridiscussa continuamente in nome della libertà e del capriccio, la norma non scritta sembra concludere che tutto è possibile, diventando fonte della più perniciosa tristezza esistenziale.

Se difficile è costruire la coppia, provando a farla crescere oltre le effimere vette dell’amore romantico, ancora più impervia sembra la strada dell’edificazione della famiglia sostenuta da una progettualità educativa congrua e adulta.

Eppure, il tradimento è tanto temuto almeno quanto, dato il comune sentire e la natura stessa del sentimento d’amore, inevitabile.

Se l’amore del terzo millennio lo contempla, quello romantico lo teme e lo avversa. Contrizione da epilogo o più realisticamente lesa maestà?

Eppure, così come precisato da Umberto Galimberti nell’articolo “Le nostre anime così infantili e primitive”, pubblicato su “la Repubblica” del 27 agosto

2003: “Non si dà amore senza possibilità di tradimento così come non si dà tradimento se non all´interno di un rapporto d´amore (…). Il tradimento appartiene all´amore come il giorno alla notte”.

James Hillman in Puer Aeternus (1999) prende in esame le possibili reazioni al tradimento, indicando tra queste quelle che bloccano la coscienza e quelle che la emancipano.

 

La vendetta, risposta emotiva per eccellenza, potrebbe saldare il conto, scaricando una tensione. Certamente, però, non emancipa la coscienza.

 

La risposta vendicativa e la sua stessa immediatezza sembrano confinare la coscienza nelle trame dell’astiosità e della crudeltà senza una mai piena soddisfazione. Nella fattispecie, l’unico effetto sembra essere quello di irrigidire l’anima.

 

La negazione, al contrario della vendetta, sembra rimediare all’idealizzazione iniziale dell’oggetto d’amore per porre sotto la luce accecante della lente d’ingrandimento le sue ombre.

Come a dire, in maniera infantile e modernamente manichea: o tutto o niente.

Altra possibile risposta al tradimento è il cinismo che nega la possibilità stessa dell’amore, rinunciando all’Altro e al suo valore. Si perpetua in questo modo, però, il più grave dei tradimenti, quello consumato verso di se stessi. Ecco allora che tutto ciò che osa sfiorare il nostro profondo assume i tratti del ridicolo.

Come ultimo opzione sembra proporsi la scelta paranoide che, inseguendo la possibilità di scongiurare il ben che minimo barlume di tradimento, mette in atto quei rituali liturgici (prove, giuramenti, segreti,ecc.) che hanno a che fare più con un amore fintamente spirituale.

Paradossalmente, infatti, abiurare la possibilità stessa del tradimento ad altro non conduce, nell’inevitabile coesistenza delle due facce della stessa medaglia, se non all’allontanamento dalla possibilità dell’amore reale.

L´esperienza del tradimento, lì dove la persona evita i meccanismi descritti e la fissità negli stessi, può rivelare il suo aspetto più creativo ed evolutivo della coscienza che, per Hillman, come anche per la tradizione cristiana, trova la sua espressione massima nel perdono.

Riconoscendo il tradimento e trovando la forza di andare oltre, solo allora l’amore può davvero presentare il suo profilo migliore e più adulto.

L’amor proprio, l’orgoglio, la sensazione di lesa maestà, però, possono inficiare l’idea stessa di far ricorso al perdono. Questo sembra essere l’annullamento di sé e per alcuni versi lo è, preso nella sua accezione positiva. Fino a quando l’uomo della post-modernità sarà vittima (più o meno consapevole) della sindrome del tutto ruota intorno a te, difficilmente potrà capire che l’annullamento di sé inteso come annullamento del proprio ipertrofico ego è l’unica strada per l’incontro profondo.

Dalla parte del traditore, poi, il senso di colpa e la ricerca di giustificazioni, possono lavorare ad ammorbidire la portata del tradimento.

Tradito e traditore possono sottrarsi al consueto meccanismo solo nel passaggio dall’innocenza della fiducia iniziale alla presa di coscienza adulta, per la quale in ogni rapporto con l’altro c’è sempre il desiderio dell’amato e dell’amante di sottrarsi allo stesso.

Solo attraverso lo sguardo della persona in sé (e per sé) e non come componente di una simbiosi perfetta (imperfetta in quanto umana) può essere salvata l’individualità e la conseguente possibilità di essere coppia.

Esserci e non-esserci, fondersi o fuggire l’annullamento del proprio essere singolo, amare e tradire, nella consapevolezza di questa eterna e insanabile dualità può farsi largo l’amore autentico.

Il bivio non sembra presentare più di due alternative: realizzazione autentica o negazione di sé.

Troppo spesso confondiamo, però, la realizzazione con egoismo e la negazione con generoso sacrificio cristiano. Se solo capissimo che l’amore non annulla amato e amante ma ne permette la piena espressione. Solo nell’io+te può esserci coppia altrimenti si tratta di un’io circoscritto alla richiesta innegoziabile che l’altro non sia più se stesso.

Quanto può essere egoistica, dunque, la pretesa dell’amore romantico ai tempi della modernità liquida. Quanta parossistica richiesta di affermazione di sé può nascondersi nell’incapacità di riuscire ad essere felici se non passando attraverso l’azzeramento dell’altro.

Il tradimento allora non è addebitabile alla coppia ma solo al singolo. Non sarà che quella coppia non è mai veramente esistita? Imputare esclusivamente all’altro il tradimento non finisce per significare non perdonargli il tentativo di affrancarsi dal (presunto almeno quanto asfissiante) noi?

Sei cambiato” è una delle tante espressioni che segnano la difficoltà della coppia, eppure il cambiamento dovrebbe indurre alla continua ridefinizione offrendo linfa e nutrimento al rapporto. Sempre, però, che lo stesso preveda una progettualità e la voglia di crescere.

E’ il traditore il colpevole! Verrebbe da chiedere al tradito se non ci sia più verità in chi prova a rompere il copione della menzogna.

Spaventa l’affermazione di sé, ancor più l’affermazione di sé come diverso da quanto l’altro si era configurato o pretendeva.

In ogni espressione amorosa (genitoriale, coniugale, amicale, ecc.) c’è sempre una zona off limits, oltrepassata la quale non è più amore ma tradimento. Quel recinto è espressione di potere, però.

La paura del tradimento è un po’ la paura del cambiamento dell’altro che ci rimanda la necessità del nostro stesso cambiamento. Quanta fanciullineria, quanta ingenuità, quante fiction dal messaggio forviante e confondente finiscono per segnare l’arresto della nostra crescita personale e culturale.

Senza il limite del suo umano troppo umano perfettibile, anche l’oggetto d’amore perde interesse, però. Ecco delinearsi i tratti dell’amore del nostro tempo: la fame d’amore, il sogno romantico, il bisogno infantile di rendere inconcepibile il profilo d’ombra dell’altro, la necessità di affermare se stessi, il tradimento…la rottura del rapporto per andare a” provare” da qualche altra parte. La navigazione con un’ancora perennemente incagliata.

Giostrina senza fine per bambini che cercano, dapprima con sguardo preoccupato e con fare rasserenato poi , la persona che lì attende sul bordo. E’ un saluto che si rinnova ad ogni giro, tutti fintamente inconsapevoli che nessuno si muoverà veramente da lì.

Il movimento è cambiamento. Quest’ultimo, per sua stessa natura, deve contemplare il rischio del tradimento e dell’emancipazione.

L’amore è risveglio non abbandono ad un sonno peraltro poco ristoratore.

Il traditore sembra essere un passo più avanti rispetto al tradito che si rifugia in espedienti atti a non vedere l’esigenza del cambiamento.

Se l’amore è vita e, dunque, movimento, fluidità, la negazione dell’amore è quell’immobilismo ammantato di amore oggi e per sempre che non è capace di mettersi in nessuna maniera in discussione.

Quel sempre uguale a se stesso è espressione di non-amore più del gesto del cosiddetto traditore. Quest’ultimo sembra aver optato per l’allontanamento della nicchia protetta, esponendosi alla vita e, paradossalmente alla possibilità dell’amore reale e adulto.

Amare è sentirsi insicuri ma l’apologia della sicurezza ad ogni costo propria della società attuale, soprattutto quando questa prevede l’annullamento di sé e dell’altro, implicitamente ed esplicitamente finisce per non consentirlo.

Si ama per sentirsi un po’ più sicuri ma per questo si finisce per rinunciare all’amore possibile, inseguendo l’idealizzazione dello stesso e quando tutto ciò si palesa, spesso, scarseggiando gli strumenti per fronteggiare la separazione e l’abbandono (normali passaggi di ogni ciclo di vita) l’oggetto d’amore diviene oggetto di vessazioni e violenza.

 

 

 

Bibliografia

 

Dubberley E., Una botta e via, Milano, Sonzogno, 2006

Giddens, A., The transformation of Intimacy: Sexuality, Love and Eroticism in Modern Societies, Cambridge, Polity Press, 1992; trad. It. La trasformazione dell’intimità. Sessualità, amore ed erotismo nelle società moderne, Bologna, Il Mulino, 1995

Hillman J., in Puer Aeternus, Milano, Adelphi, 1999

 

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