top of page

 

Il giornalismo che fa informazione sul carcere rientra nella categoria più ampia e generale del giornalismo sociale e ne porta i principali tratti distintivi inerenti il senso, i contenuti, la forma e le finalità etiche, pur distinguendosi in qualità di agente della rappresentazione mediatica di un mondo chiuso in se stesso ed in quanto tale non comunicante in modo naturale ed immediato con la società esterna. Il giornalismo dal carcere e sul carcere è, alla maniera di tutto il giornalismo sociale, idealmente inteso e praticato come strumento di estensione dei diritti di una cittadinanza fragile, ma ancor prima come informazione attenta al benessere delle persone e delle comunità in cui vivono. Se tale è il senso del giornalismo sociale in generale e del giornalismo penitenziario in particolare, ne consegue che quest’ultimo, per adempiere alla sua nobile missione, debba riservare un’attenzione riguardevole e ragguardevole alla funzione rieducativa della pena. Ciò si traduce, sul piano giornalistico, nel dovere di valorizzare il cambiamento, seppure sofferto ed incompleto, del carcere da istituzione di custodia ed isolamento a luogo della risocializzazione del detenuto, mediante trattamenti basati sul lavoro, sull’istruzione e sulle attività ricreative, sportive e culturali, oltre che attraverso relazioni continue e proficue con il mondo esterno. Le misure alternative detengono, in questo contesto, un ruolo fondamentale, poiché offrono al detenuto la possibilità di influire col proprio comportamento sulla durata della pena e di favorire il processo rieducativo. Il giornalismo penitenziario ha, in definitiva, il dovere morale di acquisire cognizione di tale passaggio fondamentale, studiando la normativa sul procedimento penale e sull’esecuzione della pena, accettando pacificamente che le misure alternative sono una diversa espressione della pena e non una forma di libertà, rinunciando responsabilmente a mettere in discussione la certezza legislativa della pena con toni urlati e servendosi, finalmente, di dati statistici atti a corredare le notizie. Ciò al fine di produrre un’informazione corretta e veritiera sulle dinamiche penitenziarie e di scongiurare ingiustificati allarmi sociali. Il giornalismo sul carcere deve dare una rappresentazione mediatica positiva della funzione rieducativa della pena, per la semplice ragione che si tratta di un’enorme conquista di civiltà e che i suoi benefici si estendono all’intera collettività per l’altissimo potenziale di riduzione dei tassi di devianza. Chiarita la questione del senso, occorre far luce sulle forme e sui toni idonei a rappresentare dei contenuti non così ovvii come potrebbe sembrare a prima vista. I contenuti scontati del giornalismo di carcere sono le notizie inerenti la devianza, i procedimenti penali, l’esecuzione delle pene, cui non possono non accompagnarsi i racconti di esperienze positive di reinserimento sociale, le novità sui progetti rieducativi messi in campo dalla collaborazione tra amministrazione penitenziaria, enti locali e terzo settore, le inchieste atte ad indagare e svelare i fenomeni nella loro complessità, senza cedere alla tentazione del sensazionalismo di un momento. Quanto alle forme ed ai toni del giornalismo penitenziario, bisogna sicuramente fare un passo indietro rispetto all’attitudine al sensazionalismo che contraddistingue il giornalismo del nostro paese e sperimentare toni asciutti ed essenziali più consoni alla verità dei fatti. Con un’attenzione speciale alla terminologia, la cui necessità nasce dalla considerazione che le parole adoperate per raccontare i vissuti della sofferenza spesso risultano, loro malgrado, inadeguate, frettolose, approssimative, disinformate e disinformanti, tali da distorcere o banalizzare quella che è la complessa realtà di un’umanità dolente. Il giornalismo penitenziario possiede una potente ed innegabile carica rappresentativa dell’umanità nelle sue declinazioni della sofferenza e del riscatto; ciò comporta la necessità di ricorrere a linguaggi, forme e toni che nascano e si sviluppino dall’empatia con la fonte, dal rinnego del tipico cinismo giornalistico, dalla comprensione dell’alterità, dall’ascolto, dall’accettazione e dalla vicinanza con le persone. Il giornalismo penitenziario richiede, in ultima istanza, l’assunzione di uno stile formale peculiare ed in quanto tale espressione di un approccio alla fragilità umana profondo invece che superficiale, empatico invece che distante, accogliente e comprensivo, pur nel dissenso rispetto a valori, scelte e comportamenti, invece che giudicante, fiducioso nella capacità di evoluzione e riscatto del singolo e della comunità invece che rassegnato alla conservazione dello status quo. Il processo di femminilizzazione del giornalismo, in corso inarrestabile dalla fine degli anni settanta in seguito al movimento femminista ed alla comparsa di numerose testate televisive, incide fortemente sulla qualità del giornalismo sociale e, di conseguenza, del giornalismo penitenziario, spingendo l’interesse su tematiche nuove e sperimentando linguaggi soft, anche se resta ancora molto da fare. La finalità etica primaria del giornalismo penitenziario è la costruzione di un ponte tra due realtà tuttora poco comunicanti tra loro: la società esterna ed il carcere. Rispetto alla questione della deontologia del giornalismo, l’art. 21 della Costituzione italiana riconosce a tutti i cittadini il diritto a manifestare liberamente il proprio pensiero attraverso la parola, la scrittura ed ogni altro mezzo di diffusione, rispettando i limiti dati dalla veridicità e dall’interesse pubblico. Il diritto di cronaca del giornalista discende dall’art. 21 della Costituzione ed è consacrato dalla legge n.69/1963 istitutiva dell’Ordine dei giornalisti, la quale proclama il diritto della libertà di stampa e dunque di cronaca. Benché l’art. 2 della legge n.69/1963 contenga degli accenni al codice deontologico, il primo passo in questa direzione è stato fatto nel 1987 dal Gruppo editoriale del Sole 24 ore, che si è dotato di un codice di autodisciplina per regolamentare i rapporti tra economia ed informazione, ponendo l’accento sull’indipendenza di giudizio del giornalista rispetto a società ed enti soggetti alla sua opinione e sull’opportunità di rifiutare incarichi e consulenze lesivi di suddetta indipendenza. Nel 1990 l’Ordine nazionale dei giornalisti ha elaborato la Carta di Treviso sulla tutela dei minori e dell’armonico sviluppo della loro personalità: in particolare, si è cercato di tutelare l’anonimato del minore vietando la pubblicazione di tutti quei dati che possono condurre all’identificazione, con l’eccezione dei casi in cui la pubblicazione di quegli stessi elementi possa servire l’interesse del minore, come in occasione di rapimenti o scomparse e previa autorizzazione dei genitori. Nel 1993, su iniziativa dell’Ordine nazionale dei giornalisti e della Federazione nazionale della stampa italiana, è stata approvata la Carta dei doveri dei giornalisti italiani, che integra il dovere di rettifica ed il diritto di replica già previsti dalla legge n.69/1963, stabilendo che la rettifica non dev’essere preceduta formalmente da una richiesta e deve soddisfare i criteri della tempestività e dell’appropriato rilievo. La legge sulla tutela della privacy n.675/1996, in seguito confluita nel D.Lgs n. 196/2003 (Codice sulla tutela della privacy), distingue tra elementi interni alle notizie, che vanno diffusi per agevolare la comprensione dei fatti, ed elementi che non vanno pubblicizzati in quanto afferenti alla vita privata delle persone e non aventi plusvalore informativo; il diritto di cronaca dei giornalisti viene tutelato con l’ art. 25, che rimanda alla competenza dell’Ordine nazionale dei giornalisti la regolazione della materia con un apposito codice deontologico. E’ da questo presupposto che quindi ha preso forma, nel 1998, il Codice di deontologia sulla privacy, il cui obiettivo è quello di contemperare i diritti fondamentali della persona con il diritto dei cittadini all’informazione e con la libertà di stampa. Se da un lato si afferma che il trattamento dei dati effettuato in ambito giornalistico non è paragonabile a quello effettuato dalle banche dati e trova giustificazione nell’art. 21 della Costituzione italiana, dall’altro si assicura la tutela della segretezza del domicilio, dello stato di salute e della sfera sessuale della persona, del diritto alla non discriminazione e del diritto di cronaca nei procedimenti penali. Attualmente le norme che regolano il comportamento dei giornalisti sono in gran parte contenute nel D.Lgs. n. 196/2003 (Codice della Privacy), nel codice di deontologia dei giornalisti del 1998 e, con riferimento alla cronaca su minori e soggetti fragili, nella Carta di Treviso del 1990. Si tratta di norme di legge vere e proprie, inerenti il rapporto tra giornalisti e membri della collettività, suscettibili, in caso di violazione, di generare responsabilità civile e/o penale del giornalista. Accanto a queste norme vi sono delle prescrizioni a carattere etico, non aventi dunque forza di legge, e riguardanti il rapporto tra giornalisti e categoria di appartenenza; la loro violazione non comporta di per sé una responsabilità civile o penale del giornalista, ma solo una responsabilità di tipo disciplinare, che viene accertata da appositi organi (Consigli Regionali e Consiglio Nazionale) e prevede la comminazione di sanzioni disciplinari quali l’avvertimento, la censura, la sospensione e la radiazione. Le norme disciplinari sono in massima parte contenute nella Carta dei doveri, siglata l’8 luglio 1993 dal Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Giornalisti e dalla Federazione Nazionale Stampa Italiana. Il dovere più pregnante del giornalista e caposaldo del diritto di cronaca è il dovere di verità, considerato sia dalla L. n. 69/1963 che dalla stessa Carta dei Doveri un obbligo imprescindibile dall’esercizio della professione. In questa prospettiva, gli organi di informazione hanno il dovere e la responsabilità di rappresentare l'anello di congiunzione tra eventi e collettività, consentendo alla collettività un prezioso e democratico esercizio di sovranità popolare. Oltre alle norme di legge ed alle norme a carattere disciplinare, esistono delle recentissime norme etico - sociali che, pur non avendo rilevanza giuridica e/o disciplinare, rappresentano un vero salto di qualità e civiltà per la deontologia professionale giornalistica italiana, a partire dalla Carta di Trieste del 2010, nata come primo codice deontologico per giornalisti che si occupano di notizie riguardanti l’area del disagio psichico e psichiatrico. Ultima, ma non per importanza, tra suddetti codici deontologici è la Carta del carcere e della pena, presentata al pubblico il 10 settembre 2011 a Palazzo Marino, sede del comune di Milano. Si tratta di un corredo di regole fondamentali per raccontare il sistema detentivo elaborate dall’Ordine dei giornalisti della Lombardia, dell’Emilia Romagna e del Veneto, con l’appoggio e la collaborazione delle associazioni legate al mondo carcerario e dei periodici carcerari Carte Bollate e Ristretti Orizzonti. E’ stata proprio una riflessione collettiva all’interno delle redazioni carcerarie di Carte Bollate e di Ristretti Orizzonti, che annualmente raccolgono gli esponenti dell’informazione dal e sul carcere, a dare forma alla necessità di creare un codice per i giornalisti, che nello scrivere di carcere e di esecuzione penale oscillano sovente tra il pietistico e lo scandalistico, ignorando perlopiù le leggi che amministrano il carcere. Il primo passo è stato rappresentato dalla decisione di organizzare seminari sulla rappresentazione mediatica del carcere, con la partecipazione degli allievi delle scuole di giornalismo e con l’Ordine dei giornalisti della Lombardia; in quel contesto Letizia Gonzales, Presidente dell’Ordine lombardo, ha reso pubblico il proprio interesse per gli aspetti deontologici dell’informazione sul carcere, offrendo lo spunto per la stesura di una Carta che regolasse l’informazione sul settore penitenziario. Due sono i principi cardine che ispirano l’ultimo dei codici deontologici per la professione giornalistica: l’imprescindibilità della conoscenza della legge ed il diritto all’oblio. Per ciò che concerne il primo punto, semplicemente non è ammessa, neppure per i giornalisti, l’ignoranza della legge, laddove essi dimostrano spesso di non conoscere le norme che consentono ai detenuti di accedere ai benefici ed alle misure alternative. Il criterio deontologico del rispetto sostanziale della verità dei fatti contenuto nella legge istitutiva dell’ordine n. 69/1963 richiede, da parte del giornalista, il costante riferimento alle leggi che disciplinano il procedimento penale e l’esecuzione della pena, nonché ai principi fissati dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, dalla Costituzione italiana e dalla legge sull’ordinamento penitenziario n.354/1975 con le relative modifiche apportate dalla legge Gozzini n.663/1986. Si tratta di leggi che non mettono assolutamente in discussione la certezza della pena, per il semplice motivo che le misure alternative, ben lungi dall’essere equivalenti alla libertà, sono una diversa modalità di esecuzione della pena stessa. Troppo spesso, invece, i giornalisti utilizzano termini inappropriati nei casi in cui un detenuto usufruisca di misure alternative al carcere o di benefici penitenziari. Senza contare le innumerevoli campagne giornalistiche di sottile delegittimazione della riforma attuata dalla legge Gozzini, attraverso la messa in discussione della certezza della pena, non garantita per molti giornalisti dalla legge summenzionata, oppure attraverso l’enfatizzazione dei pochi casi di evasione e di mancato reingresso dai permessi ordinari e dai permessi premio. L’enfatizzazione sul caso singolo, finalizzata al raggiungimento del maggior clamore mediatico possibile, trascende quasi sempre il controllo e la descrizione giornalistica dell’andamento di un certo fenomeno in termini statistici; in altri termini, la notizia dell’evasione del detenuto in permesso premio andrebbe corredata di quei dati statistici che ne misurano l’incidenza e ne mostrano l’oggettiva occasionalità, confermando la validità delle misure alternative ed il loro bassissimo margine di rischio; la Carta del carcere e della pena insiste sull’inserimento negli articoli di dati aggiornati e veritieri che facilitino una corretta lettura del contesto carcerario con l’obiettivo di far assurgere l’informazione alla dignità di informazione imparziale, laddove solitamente i numeri non vengono forniti ed il risultato è quello di offrire una rappresentazione distorta del mondo penitenziario, di aggravare lo storico scollamento tra rappresentazioni ufficiali del carcere e realtà del carcere e di generare un ingiustificato allarme sociale. La rappresentazione imparziale dei fatti, che rappresenta l’interesse generale prioritario perseguibile dal giornalista nel suo rapporto esclusivo, diretto ed immediato con la collettività, viene dunque sacrificata all’interesse particolare del sensazionalismo che incrementa le vendite. Anche il percorso di reinserimento del detenuto ne fa le spese, divenendo ingiustamente nell’immaginario collettivo causa di ansia ed incertezza, piuttosto che civile occasione di recupero a vantaggio del detenuto e della collettività tutta – oggetto, tra l’altro, di severissimi controlli –. Intrappolato tra la rappresentazione mediatica ufficiale, selezionata e sovente patinata ed edulcorata dell’Amministrazione penitenziaria, desiderosa di mostrare all’esterno le buone pratiche più che i problemi irrisolti, e la rappresentazione mediatica sensazionalistica della carta stampata, il carcere rimane oggi più che mai isolato e sconosciuto nella sua complessità alla società esterna. Se da un lato settori crescenti ed acculturati della popolazione italiana considerano il carcere un luogo in cui la dignità dell’individuo va tutelata e protetta per agevolarne il reinserimento sociale, dall’altro il carcere rimane, per la stragrande maggioranza dell’opinione pubblica, il luogo dell’indesiderabile e del rimosso, ovvero del male assoluto che permea di sé le istituzioni totali atte a reprimere e contenere l’alterità (prima della Riforma Basaglia anche i manicomi hanno assolto appieno questa funzione di separazione). Per ciò che concerne il secondo principio ispiratore della Carta del carcere e della pena, il diritto all’oblio significa che, una volta scontata la pena, l’ex detenuto, impegnato nell’arduo processo di ritrovare una collocazione nella società, non può essere esposto senza motivi significativi all’attenzione dei media; c’è una sola eccezione ed è rappresentata da quei fatti di cronaca eclatanti per i quali l’interesse pubblico non viene mai meno. La stampa, troppo frequentemente, viola tale diritto, che fa parte dei diritti inviolabili elencati nell’art. 2 della Costituzione, e reitera la memoria di un passato scomodo ed ingombrante in quanti fanno parte della quotidianità dell’ex detenuto: vicini di casa, colleghi, datori di lavoro, compagni di scuola dei figli, commercianti del quartiere, ecc.

 

Alla luce delle considerazioni relative al senso ed alla missione etico-sociale del giornalismo penitenziario, nonché all’attenta valutazione della Carta del carcere e della pena, è comprensibilmente possibile tentare di costruire una sorta di decalogo o vademecum per la rappresentazione mediatica carceraria.

 

Innanzitutto, risulta essere cruciale la questione della formazione. Il giornalista del sociale che si occupa del settore penitenziario deve avere una formazione adeguata e permanente che, nell’attesa di occasioni formative istituzionalizzate, può tranquillamente assumere le vesti dell’auto-formazione da parte di redazioni o di professionisti singoli consapevoli del loro operato. E poiché il criterio deontologico del rispetto sostanziale della verità dei fatti contenuto nella legge istitutiva dell’ordine n. 69/1963 è il fondamentale principio ispiratore dell’attività giornalistica, il giornalista del sistema detentivo ha l’obbligo di fare costante riferimento alle leggi che disciplinano il procedimento penale e l’esecuzione della pena, nonché ai principi fissati dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, dalla Costituzione italiana e dalla legge sull’ordinamento penitenziario n.354/1975 con le relative modifiche apportate dalla legge Gozzini n.663/1986. In definitiva, il giornalista del carcere deve conoscere bene ciò che racconta, in modo tale da rappresentarlo senza distorsioni né sensazionalismi. Lo stile ed i toni vanno accordati a suddetta necessità di descrivere i fatti in maniera realistica, esaustiva e documentata, evitando pietismi e denuncie urlate ed optando per uno stile asciutto ed essenziale maggiormente rispettoso della verità delle cose. Tanto per fare un esempio, il dibattito sull’indulto, che torna alla ribalta nei periodi di particolare sovraffollamento delle carceri, potrebbe essere gestito in maniera più responsabile dai media, i quali anziché sobillare l’opinione pubblica con la solita contabilità preventiva – ed allarmistica – di quanti torneranno in carcere dopo aver usufruito dell’indulto richiesto in quel periodo dalle associazioni, dovrebbero far riferimento a ricerche e studi corredati di dati statistici. Questa considerazione conduce dritta ad una terza regola opportuna per la rappresentazione mediatica penitenziaria, ovvero l’approfondimento dei fenomeni e la ricerca delle loro cause, piuttosto che la scelta del clamore sensazionalistico suscitato dall’esplosione di un fenomeno. Attualmente si tende, da parte della carta stampata e dei media in generale, a “notiziare” il carcere esclusivamente in situazioni di estrema emergenza, attraverso un’informazione intermittente e discontinua connotata dall’enfatizzazione. Benché il sistema penitenziario sia notoriamente chiuso e gli operatori mediatici vi si accostino di prassi in occasione di eventi critici, ciò che urge è la creazione di una cultura giornalistica dell’indagine di fenomeni rilevanti e correlati quali la devianza, la tossicodipendenza o l’immigrazione, attraverso lo strumento principe dell’inchiesta. L’attitudine a scandagliare i fenomeni invece che urlarne l’esplosione può dare un utile ritorno in termini di specializzazione e di realizzazione di una nicchia informativa privilegiata rispetto alla rincorsa allo scoop del web, delle agenzie stampa e della televisione.

 

La quarta regola riguarda la scelta di non personalizzare eccessivamente l’informazione: i racconti di vita suscitano sì nel pubblico dei lettori emozione e curiosità, ma rischiano di generare un pietismo superficiale e fine a se stesso piuttosto che una comprensione appropriata ed a carattere generale dei problemi. Sarebbe buona norma partire dal caso singolo per accedere alla descrizione e comprensione di questioni di respiro e di interesse collettivo, a meno che si presenti la necessità di denunciare in maniera puntuale e precisa una situazione insostenibile.

 

Un’ulteriore regola concerne l’opportunità di raccontare le varie voci della realtà penitenziaria, ognuna delle quali possa contribuire, nella sua ineludibile parzialità, a comporre l’unità di un sistema complesso comprendente vari livelli: detenuti, personale carcerario ed amministrazione penitenziaria.

 

La cronaca deve poi avere un taglio sociale e sociologico assolutamente scevro da ideologie che portano la discussione sul terreno scivoloso delle posizioni ribadite e delle soluzioni sfuggite all’infinito. La medesima cronaca deve scongiurare il pericolo delle generalizzazioni, che per quanto efficaci a livello comunicativo, distorcono la realtà e rendono totale il parziale.

 

Il giornalismo del sistema penitenziario ha altresì l’obbligo di far luce sulle esperienze positive di rieducazione e reinserimento sociale, con l’obiettivo consapevole di dare un orizzonte costruttivo ad un mondo che, a riforma incompiuta, fatica a trovarlo da sé. Questo passaggio richiede un cambiamento significativo della filosofia alla base dell’informazione, la quale dev’essere rivolta all’utilità sociale della riabilitazione piuttosto che all’utilità economica dello scoop. Laddove la stampa locale si mostra più attenta alla necessità di pubblicizzare i progetti ed i successi riabilitativi, la stampa a carattere nazionale rimane tuttora squilibrata sull’enfasi delle criticità. Le ultime due regole non possono che rimandare, infine, all’importanza e peculiarità del linguaggio e dello stile della comunicazione giornalistica in ambito penitenziario. Il giornalismo penitenziario possiede una potente ed innegabile carica rappresentativa dell’umanità colta nelle sue esperienze archetipe della sofferenza e del riscatto; ciò comporta la necessità di ricorrere a linguaggi, forme e toni e stili che nascano e si sviluppino dall’empatia con la fonte, dal rinnego del tipico cinismo giornalistico, dalla comprensione dell’alterità, dall’ascolto, dall’accettazione e dalla vicinanza con le persone.

 


 

 

Dalla Carta del carcere al decalogo per il giornalismo penitenziario

Fidalma Filippelli

Copyright: ProfessioneSociologo. All Rights reserved

Leggi l'informativa sulla privacy

  • Wix Facebook page
  • Wix Twitter page
  • Wix Google+ page
bottom of page