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Con i tuoi occhi.

Donne, tossicodipendeza e violenza sessuale

Anna Paola Lacatena

La donna tossicodipendente e la violenza sessuale

 

La tossicodipendenza al femminile non è un tema particolarmente trattato da studi e indagini e non solo a livello nazionale.

 

Ancora meno praticata è la problematica relativa agli abusi e alle aggressioni subite dalle donne che utilizzano sostanze psicotrope (legali e non).

 

Verrebbe da pensare che ci sono troppi presunti buoni motivi di esclusione per accordare il nostro tempo e la nostra riflessione ad una simile questione. Troppi finti moralisti per chiedere uno sdegno autentico almeno quanto necessario.

 

Questo libro intende provare a porre dei quesiti in merito, nella consapevolezza che trovare delle risposte definitive e condivise non è affatto semplice e, come per ogni percorso di ricerca, neppure del tutto desiderabile.

 

Le considerazioni riportate in queste pagine, dunque, hanno come finalità precipua quella di sollevare una riflessione capace di creare qualche piccola crepa nel tessuto dell’indifferenza che ammanta, colpevolmente, le problematiche affrontate.

 

Più che le risposte, allora, sembrano connotarsi di necessità proprio le domande.

 

Quanto una violenza subita può facilitare in una donna l’avvio dell’assunzione di sostanze?

 

Quanto l’assunzione di sostanze stupefacenti espone al rischio di subire un reato e, specificatamente, una violenza sessuale?

 

Quanto la Legge italiana tutela le donne e le tossicodipendenti dalla possibilità di essere vittime di violenze?

 

Nell’immaginario collettivo e nel sistema normativo del nostro Paese la violenza subita da una donna ha lo stesso “valore” , peraltro già limitato e imbarazzante, che viene attribuito a quella che vede come vittima una tossicodipendente?

 

Quest’ultima percepisce l’aggressione come un reato che andrebbe sanzionato o la stessa, in un meccanismo comune di assuefazione al disvalore di sé, ritiene l’abuso come ulteriore regola imposta dal gioco dell’approvvigionamento di altra sostanza e dello svilimento della propria persona?

 

Inutile nascondere che, ad oggi, risultano ancora troppi e del tutto ingiustificati i luoghi comuni in grado di influenzare i processi di attribuzione delle responsabilità.

 

Non è ancora chiaro, e ai più, che la tossicodipendenza è una malattia e non una scelta completamente libera né, meno che meno, un vizio.

 

Non è ancora chiaro che tutto ciò che viene estorto senza la volontà dell’altro è una violenza e, dunque, un reato.

 

La resistenza delle donna, la reputazione goduta, la seduzione/provocazione esercitata soprattutto attraverso l’abbigliamento, la frequentazione di posti ritenuti non sicuri, l’uso di sostanze psicotrope (legali e non) non sono che alcuni dei capi di imputazione più diffusi, di pronto e diffuso utilizzo al fine di chiamare alla sbarra la donna come responsabile della sua sicurezza, ritenendola completamente in grado di utilizzare e dotarsi di quegli strumenti atti a minimizzare la possibilità di subire un’aggressione.

 

Le percentuali emerse da una ricerca condotta dal Dipartimento delle Dipendenze Patologiche della ASL di Taranto, nell’estate del 2011, dimostrano la grande diffusione del fenomeno tra le donne tossicodipendenti come esperienza vissuta prima dell’avvio della carriera tossicomanica e dopo l'istaurarsi della dipendenza patologica. La domanda che è sembrata emergere con decisione è stata: quanto costa una dose ad una donna? La risposta, purtroppo, è parsa da subito sconcertante: sicuramente il prezzo corrente più un po’ del suo corpo.

 

L’esiguo numero di donne che denunciano o raccontano la propria esperienza ha aperto alla necessità di una riflessione rispetto alla modalità di accoglienza e cura delle pazienti dei Dipartimenti delle Dipendenze Patologiche e delle Comunità Terapeutiche.

 

Ciò che il libro “Con i tuoi occhi. Donne, tossicodipendenza e violenza sessuale”, Franco Angeli Editore (2012) ha provato a dimostrare è che se già l’attenzione culturale e normativa nei confronti del reato contro la persona e, nello specifico della violenza sessuale, risente di tratti maschilisti e banalizzanti, la questione si aggrava di indifferenza ulteriore e colpevole distrazione generale quando si tratta di donne tossicodipendenti. Sono coloro che più di altre nell’immaginario collettivo " …se la sono andata a cercare".

 

Se a tutto ciò si uniscono conseguenti sensi di colpa e di vergogna ed un meccanismo pervicace da eliminare quale l’auto-biasimo, appare di facile lettura il mancato ricorso allo strumento della denuncia.

 

Quotidianamente il cittadino globale è chiamato a confrontarsi con il silenzio rispetto a quanto subisce e alla paura di quanto può verificarsi nella sua stessa esistenza. Sembra che i nuovi “esclusi” non provino questi sentimenti. Sembra che agli stessi non sia consentito nutrirne. Della paura sono considerati origine, non sono certo loro i destinatari di tutti quei proclami inneggianti alla sicurezza su cui si gioca il consenso politico da infima campagna elettorale.

 

Quasi completamente trascurata nella donna-vittima-tossicodipendente non è meno paura.

 

La paura che possa verificarsi ancora, la paura di non essere più in grado di avere una vita normale, la paura di essere lasciata sola.

 

Nulla come la paura ci spaventa.

 

Eppure nulla è più patogena di una cura che non sa guardare in viso le proprie angosce.

 

Escludiamo l’altro per non sentire i nostri timori, per non sentire i suoi, con l’unico risultato di essere tutti sempre più soli ed impauriti.

 

Dinnanzi al reato di violenza sessuale, poi, ogni sentimento è consentito anche se alcuni addolorano.

 

Perché chi subisce uno stupro – al contrario delle vittime di altri reati – si sente costretto a vergognarsi?

 

La reticenza delle donne a denunciare quanto subito non finisce per implementarsi là dove al senso di vergogna derivata dall’aggressione si unisce quello relativo al fare uso di sostanze?

 

Quanto la cultura dominante, consolidatasi negli ultimi anni nel nostro Paese, non è responsabile di una visione minimizzante del rispetto per la sessualità femminile?

 

All’indifferenza, al giudizio, alla facile condanna si unisce, poi, la vittimizzazione secondaria che queste donne subiscono dalla società (definibile civile solo facendo leva sull’incondizionata generosità), alcune volte dagli stessi operatori e, molto spesso, da se stesse.

 

Fino a quando l’individuo si chiederà una ragione che motivi la cura e l’interesse per chi gli sta intorno, fino a quando una società non sarà in grado di tutelare i suoi componenti, al di là di ogni classificazione possibile tra abusante e abusato?

 

Il novello Caino si interroga “Sono forse io responsabile di mio fratello?”, l’individuo morale capace di legami sociali non può che rispondere “Si! Lo sono”.

 


 

 

La ricerca

 


 

 

Nel solco della tradizione della ricerca sociale, ogni studio dovrebbe condurre a nuovi interrogativi più che a, spesso improprie, certezze oggi e per sempre.

 

Il Dipartimento Dipendenze Patologiche della ASL di Taranto, nel corso del 2009, ha promosso una ricerca sulla popolazione degli eroinomani presenti nella locale Casa Circondariale, chiedendosi quali fossero i reati più commessi da questa frangia di popolazione detenuta, se la stessa avesse beneficiato dell’Indulto del 2006 e se a questa misura di clemenza avesse fatto seguito un reingresso in Carcere e con quali reati.

 

In estrema sintesi, il tossicodipendente (soprattutto da eroina) commette sì reati e, generalmente, sempre gli stessi (“contro il patrimonio”, “evasione” dalle misure alternative, e legati alla Legge sugli stupefacenti, n.49/2006, la cosiddetta Fini-Giovanardi) ma questo non può non aprire alla prospettiva vittimologica, per la quale egli stesso ne è oggetto (Lacatena, 2010).

 

In modo particolare, esaminando l’area più vulnerabile dell’universo delle dipendenze, si è arrivati, dunque, a chiedersi quali sono i reati che più frequentemente vedono le donne coinvolte nel ruolo di vittime.

 

Dalla precedente ricerca, dunque, ha preso origine quella condotta nel 2011 e che ha portato alla pubblicazione del libro “Con i tuoi occhi. Donne, tossicodipendenza e violenza sessuale”, Franco Angeli Editore (2012) con prefazione di Don Andrea Gallo.

 

Riprendendo quanto riportato nella pubblicazione va osservato da subito che: la popolazione femminile afferente ai vari Servizi per le Tossicodipendenze del DDP in questione era composta al 15 giugno 2011 (data di inizio dello studio) da 139 donne, ossia pazienti di sesso femminile che, a partire dal 15 del mese precedente dello stesso anno, avevano ricevuto un trattamento sanitario o di tipo psico-sociale e educativo. A queste vanno aggiunte le 15 donne presenti nelle Strutture del Privato Sociale del territorio, in carico ai Ser.D. del territorio.

 

Tabella n.1 Le donne-pazienti del DDP ASL TA

 

Di questa popolazione, tra il 15 giugno e il 15 luglio 2011, il personale infermieristico per i Ser.D. e gli Educatori per il Privato Sociale (tutte donne), arruolato per l’indagine, è riuscito a proporre la partecipazione allo studio a 65 pazienti (43,3% sul totale).

 

Dai 65 questionari analizzati è emerso che 40 donne non hanno riportato esperienze di violenza sessuale (sottogruppo A).

 

Dal sottogruppo A è da rimarcare che: l’età media è di 35 anni. Il 64% è nubile e la media dei figli partoriti è di 1,8. Il 45% delle 31 donne che dichiarano di avere prole non è coniugata.

 

Il 50,7% ha un diploma di scuola media inferiore, il 4,6% è laureata.

 

Il 65% non ha un’occupazione fissa.

 

La sostanza d’elezione, o primaria, per il 56,9% è l’eroina, seguita dall’alcol per il 15,3%. Quella secondaria è per il 29,2% la cocaina. Il 46,1% non risponde a questa domanda, facendo pensare ad un non diffuso policonsumo.

 

In media questa parte della popolazione contattata ha iniziato l’uso di sostanza intorno al 1996 con una presa in carico da parte di un Servizio pubblico datata 2002.

 

Al momento del contatto, il 67,7% assume terapia farmacologica sostitutiva (metadone, suboxone, o alcover), il 38,3% ha in corso prestazioni psico-sociali ed educative.

 

Il questionario, oltre ad una prima parte di raccolta anagrafica e anamnestica, proseguiva con 6 domande che provavano ad entrare più nello specifico rispetto alla problematica della violenza sessuale. Una settimana domanda, chiedeva direttamente alla donna compilante se avesse subito violenza sessuale. Qualora la risposta fosse stata affermativa, si chiedeva di specificarne la tipologia, proseguendo sino alla domanda 22.

 

Evidentemente se la risposta all’interrogativo numero 7 era negativa, si chiedeva di chiudere il questionario, sigillandolo e imbucandolo nell’apposito contenitore.

 

Alla prima domanda atta ad indagare l’approccio delle intervistate alla problematica, il 53% di questa parte di popolazione indica la necessità di un innalzamento delle pene per quanti si macchiano di simili reati.

 

Il 25% dichiara che “C’è curiosità ma poca sensibilità nei confronti della donna abusata”.

 

Per il 55% “Un posto vale l’altro”, ossia non individuano un luogo più a rischio di subire violenze sessuali.

 

Per il 72% gli operatori delle tossicodipendenze del territorio (Ser.D., Comunità e Drop In) sono adeguatamente preparati per riuscire a fornire aiuto all e donne con problemi di dipendenza patologica che ha subito violenze sessuali.

 

Per il 58% esiste una correlazione tra violenza sessuale e utilizzo di sostanze psicotrope nelle donne.

 

Il 60% non conosce donne che hanno subito violenze sessuali che hanno, in seguito, fatto uso di sostanze.

 

Analoga percentuale è registrata per ciò che attiene la conoscenza di donne che successivamente all’uso di sostanze hanno subito violenze sessuali.

 


 

 

Sottogruppo B

 


 

 

Dai 65 questionari autosomministrati emerge che 25 donne (38,4% della popolazione analizzata) hanno subito violenze sessuali (sottogruppo B), così suddivise: il 44% stupro, il 20% molestia sessuale, il 12% tentato stupro, il 24% non specifica. Di queste 17 donne riferiscono di aver vissuto tale esperienza prima dell’avvio della carriera tossicomanica e 8 dopo.

 

L’età media è di 37,5 anni. La condizione civile è simile a quella delle donne che non avevano subito violenze con la differenza che se nel caso precedente la media figli era di 1,8, per le 25 intervistate la media scende allo 0,64.

 

In media le donne che hanno risposto affermativamente alla domanda “Hai mai subito una violenza sessuale?” (si precisa che è stata data una puntuale definizione della stessa ad inizio questionario, secondo quanto stabilito dall’Organizzazione Mondiale della Sanità), al momento dell’episodio avevano 18,3 anni.

 

L’età inferiore è stata di 8 anni, quella superiore di 44.

 

Nello specifico del titolo di studio la percentuale relativa al diploma di Scuola Media Superiore sale dal 33,8% delle 40 donne che non hanno riportato episodi di violenza sessuale, al 40% delle 25 che invece riportano tale esperienza.

 

Interessante appare il numero delle disoccupate che raggiunge il 91,3%.

 

L’eroina appare più presente con un 73,9% che la fa registrare come sostanza primaria, con un 52,9 di cocaina come secondaria.

 

Nel caso delle 40 donne l’anno di prima assunzione è da riportare al 1996 e, dunque, con una sorta di militanza nel consumo di almeno 15 anni, le 25 fanno registrare una sorta di fidelizzazione ancora più datata, ossia riferibile al 1993.

 

L’anno di presa in carico da parte del Ser.D. è per la prima parte dell’universo analizzata il 2002, per le seconde il 1999.

 

A tal proposito, una riflessione sull’impostazione dei Servizi per le Tossicodipendenze e delle realtà del Privato Sociale, conduce inevitabilmente alla conclusione che si assiste ad una sempre maggiore cronicizzazione del consumo anche alla luce di risposte sempre meno al passo con i tempi e sempre meno immediate. Si arriva tardi a chiedere aiuto e magari a realtà sempre più spostate verso i “veterani” del fenomeno.

 

Il 75% delle donne che hanno risposto affermativamente alla domanda n.7 fanno ricorso a terapia farmacologica sostitutiva con una netta prevalenza di metadone (61%) e di suboxone (22%). Le stesse fanno registrare un 43% di integrazione con interventi di tipo psico-socio-pedagogici.

 

A tal proposito va segnalato che nelle Comunità Terapeutiche tale intervento è decisamente meno facoltativo che nei Ser.D..

 

Il 70% di questa parte dell’universo analizzato avverte come necessario un innalzamento delle pene per quanti si macchiano di reati di violenza contro le donne. Per il 41% il luogo dove le donne corrono più rischi è la famiglia, il campione rappresentato dalle 25 donne si spacca in merito alla preparazione degli operatori dei Servizi Pubblici e del Privato Sociale sulle problematiche analizzate dalla ricerca.

 

Se il 58% del campione costituito dalle 40 donne che hanno concluso l’autosomministrazione alla domanda n.7 vede una correlazione tra violenze sessuali e uso di sostanze, la percentuale sale per il campione costituito dalle 25 donne con un netto 75%.

 


 

 

Domanda n.4- “Secondo Lei esiste in una donna una correlazione tra violenza sessuale e utilizzo di sostanze psicotrope?”

 

Il 68% di queste ultime conosce donne che hanno vissuto l’esperienza della violenza sessuale e il 76% conosce donne che hanno subito tale reato nel corso della loro assunzione.

 

Appaiono evidenti le differenze tra il sottogruppo A e il sottogruppo B, soprattutto per ciò che attiene ai luoghi più a rischio e alla preparazione in merito degli operatori delle tossicodipendenze. Per il 58% delle donne del sottogruppo B, infatti, rispetto al 72% di quello A, gli operatori sono adeguatamente preparati per riuscire a fornire aiuto alla donna con problemi di dipendenza patologica che ha subito violenze sessuali.

 

Probabilmente i Servizi non hanno ancora sviluppato quella capacità sinergiche, soprattutto in termini di rapid assessment, ovvero intervento pronto ed adeguato sia di tipo protettivo e di rielaborazione terapeutica del vissuto traumatico, sia di tipo progettuale.

Domanda n. 3- “ Lei crede che gli operatori delle tossicodipendenze “Ser.D. e Comunità Terapeutiche) siano adeguatamente preparati per riuscire a fornire aiuto alla donna con problemi di dipendenza patologica che ha subito violenze sessuali?”

 

Le figure professionali operanti su queste problematiche, alla luce anche del crescente numero di pazienti e del continuo ridimensionarsi delle forze in campo (contrazione numero personale, assenza di turn-over,ecc.), spesso, si trovano nella difficoltà di non riuscire ad agire con relativa tempestività sul contenimento/limitazione/rielaborazione del vissuto, dei danni prodotti e dei rischi a cui le donne restano esposte dopo aver subito violenze sessuali.

 

Gli stessi si trovano, altrettanto spesso, a procedere su prassi standard o secondi i dettami di ortodossie mai veramente rivisitate alla luce dei nuovi scenari del consumo e del contesto socio-culturale e, vista la cronaca attuale, anche di quello strettamente economico.

 

La sempre nuova riscrittura, poi, e la continua discussione su l’iter procedurale, dalla presa in carico e sino alle possibili dimissioni, da far rispettare, finiscono per spostare l’attenzione sui tecnicismi dell’approccio e dell’intervento più che sui contenuti degli stessi.

 

Il risultato di questo continuo interrogarsi su ciò che sarebbe meglio fare, finisce per frustrare l’operatore, solo al cospetto dell’urgenza di fare i conti con il proprio senso di smarrimento quando non di impotenza.

 

Il risultato per il paziente è, invece, il consolidamento della percezione del disinteresse o della mancanza di strumenti atti a promuovere la persona reale e le sue altrettanto reali esigenze.

 

Come a dire che nella ricerca dell’intervento efficace, o più efficace possibile, si finisce per perdersi: da una parte l’operatore dall’altra il paziente. Forse entrambi alla ricerca della Persona.

 


 

 


 

 


 

 


 

 

Focus Area

 


 

 

Il 44% di tutte le 25 donne che hanno riportato vissuti di violenza subita, precisa che tali episodi si sono consumati in famiglia, del 32% che ha conosciuto tale reato dopo il consumo continua ad individuare nella famiglia il luogo più a rischio.

 

L’80% non ha denunciato l’accaduto, del restante 20%, il 36% si è confidato, prima della denuncia, con un familiare (anche compagno), peraltro non sentendosi “Accolta” se non per un 45% e giudicata per il 53%, mentre il restante 64% non ha risposto alla domanda.

 

Per il 75% questa esperienza ha prodotto cambiamenti significativi nella propria esistenza.

 

Per il 33,4% la ragione che ha indotto a non denunciare l’episodio di violenza è la vergogna, per il 20% l’ostacolo è stato “Pensavo non servisse a niente”, per il 20% ancora perché “ Erano fatti miei”.

 

Ci sarebbe da chiedersi perché una vittima dovrebbe provare vergogna e senso di colpa. Alcuni studiosi hanno rilevato come quest’ultimo sia una consueta risposta del soggetto traumatizzato.

 

Se razionalmente si potrebbe pensare ad una sorta di casualità, in realtà, molto spesso la vittima, incapace di placare fino in fondo il proprio dolore, ritiene di essere stata in qualche maniera complice del suo aggressore.

 

Di particolare interesse è il numero delle donne che riferiscono di aver subito violenze dopo l’avvio della carriera tossicomanica. Di fatto solo 8.

 

Questo aspetto ha immediatamente focalizzato l’attenzione. E a tal proposito si è pensato di ascoltare più direttamente le donne del Dipartimento.

 

L’aspetto che è sembrato emergere immediatamente è stato quello di una percezione compromessa di quanto, invece, quotidianamente, molte tossicodipendenti sono costrette a subire. Tanto da far pensare che il costo dell’uso femminile è pari a quello richiesto agli uomini, più un po’ del loro corpo.

 

Le donne finiscono cioè per vivere queste richieste come parte integrante di un gioco che le vede svilite e svalorizzate quasi aprioristicamente per il solo fatto di essere tossicodipendenti.

 

Pur garantendo la Legge sulla violenza sessuale del 1996 dell’Ordinamento italiano, una tutela in più rispetto al passato, pur prevedendo le aggravanti dell’art. 61 del Codice Penale , di fatto ci sono vere e proprie aree di deserto normativo.

 

In estrema sintesi se una donna può veder riconosciute le aggravanti qualora qualcuno le somministri a sua insaputa sostanze per vincerne le resistenze, lo sciacallaggio che ruota intorno al consumo al femminile aumenta la possibilità di non vedersi riconosciuto il reato subito e di non sentire il bisogno di denunciarlo.

 

Dovrebbe, infatti, denunciare la violenza e la dipendenza o l’uso di sostanza.

 

Da questo punto di vista, gli strumenti a disposizione potrebbero dimostrare un uso prossimo alla violenza solo nel caso dell’alcol. Per tutte le altre sostanze i tossicologici coprono un arco di tempo di alcuni giorni e, dunque, verrebbe meno la contestualità degli eventi.

 

Dimostrando, con una certificazione del Servizio Pubblico, lo stato di dipendenza, però, oltre ad esporre la donna alla presa di coscienza della sua condizione da parte di altre persone a cui magari la stessa nel tempo non ha confidato tale stato (si farebbero largo questioni legate alla Legge n.196 del 2003, meglio nota come Legge sulla Privacy), la difesa del reo potrebbe puntare proprio sulla condizione di bisogno per alleggerire la posizione dello stesso.

 

Risulterebbe la donna, come peraltro già troppo spesso e insopportabilmente accade, e nella fattispecie supportata dallo stato di necessità di reperire soldi e sostanza, a risultare colei che ha provocato o, peggio ancora, “…se l’è andata a cercare”.

 


 

 


 

 

Con i tuoi occhi

 


 

 

Nonostante la ricerca fosse di carattere descrittivo (questionario autosomministrato), è parso opportuno dare voce, in maniera meno strutturata, alle protagoniste.

 

Una rappresentante del sottogruppo A ed una del sottogruppo B hanno raccontato la loro esperienza.

 

Questo è quanto emerso dal loro racconto, diviso in due aree “Droga”, “Violenza sessuale”:

 

Sonia, 32 anni-Sottogruppo A (violenza precedente all’uso di sostanza)

 

Daniela, 42 anni- Sottogruppo B (violenza successiva all’uso di sostanza)

 

(i nomi di fantasia sono stati scelti dalle stesse intervistate).

 


 

 

Area “Droga”

 


 

 

Sonia

 

Incontro Sonia in Comunità, appartandoci in una stanza adibita a incontri di gruppo. Non sembra a suo agio. È smagrita. Indossa abiti che sembrano mortificare la sua femminilità. È struccata (in Comunità non è consentito il trucco). Guarda spesso altrove, sembra cercare le parole ricorrendo a continue pause. Sedendosi, ha posizionato la sedia un po’ più indietro rispetto a dove era collocata. Addenta il labbro inferiore, schiacciandolo lungo i bordi. Muove continuamente le dita delle mani, percorrendo la superficie dell’unghia dei pollici con i medi e facendole scrocchiare continuamente.

 

Sono in comunità da 5 mesi (…) Ero arrivata (...) Ho fatto un sacco di casini (…). Cioè non ho fatto reati. Nemmeno in carcere sono stata mai (…). Ho cominciato a bere a 13 anni (...) non lo so perché. Cioè forse adesso lo so, allora mi sembrava una cosa normale. Ero strana già da piccola (…). Non era una trasgressione o almeno pensavo (…). A casa c’era di tutto. Nessuno se ne accorgeva. Mi faceva sentire bene (…) meglio(...) si fa per dire. Mi spegneva certe paure. Mi sembrava di essere uguale (…). Io, però, non ero uguale agli altri. Mi è piaciuto sempre fare cose da grandi. Anche a scuola me la facevo con quelli più grandi di me. Al primo superiore ho provato le canne (…) troppo bello –ride- (..). Ho iniziato a fumare con certi del quarto poi sono stata bocciata e non sono andata più. Uscivo la sera con una comitiva del mio paese (…) non è che erano i migliori. Ho provato anche la cocaina e le pasticche anche se mi faceva paura (…)bevevo di tutto, però. E siccome il mio paese non è grande lo sapevano anche la mia famiglia (…) Quando ho fatto quell’altra comunità mi sono attaccata alla cosa (…) alla bottiglia dell’alcol che usano gli infermieri. Mi hanno cacciata (…) quello che volevo. L’eroina mi ha sempre fatto paura (…) e pure schifo (…) diventi schiavo (…). Anche il sesso ti fa schiavo-incrocia le braccia sul petto- (…) e ti fa paura(…) e schifo. A me mi faceva questo effetto (…) cioè mi faceva schifo ma mi piaceva pure (…) cioè non lo so veramente (…) può essere una droga che non costa (…) almeno non di soldi (…) comunque mo’ sto capendo certe cose anche per la salute mia (…) mica può andare sempre liscia (…) che sono cinque mesi che non bevo. È difficile (…) Il pensiero sempre là va. Mo’ sto qua che mi voglio togliere il vizio di bere (...) Per me. Capito?!”

 


 

 

Daniela

 

Daniela sembra a suo agio. Si presenta con qualche minuto di ritardo sull’orario fissato. È curata nell’aspetto. Ha un abbigliamento casual ma di buona fattura. Sembra ostentare sicurezza. Siede accavallando da subito le gambe. Si ravviva spesso i capelli. Spegne il telefonino dopo aver ricevuto una telefonata. Riferisce di non aver molto tempo a disposizione “devo prendere il bambino da scuola”.

 

Ho iniziato come tutti verso i 14 anni (…) prima il fumo e poi le cose più grosse. Non ho mai mischiato, però. Quando conosci l’eroina presto è difficile che lasci (…) Adesso io prendo metadone e non mi faccio da parecchio (…) me ne sono uscita da qualche anno (…) Ho sceso tutti i gradini della scala (…) il carcere (...) la porta di casa sbattuta in faccia. Poi ho trovato chi mi ha dato una mano (…) l’avvocato prima di tutti. Sono stata in due- tre comunità, pure una di sopra vicino a Bologna (…) quella che mi è piaciuta di più (…) ma comunque non è per me (…) che non ti credere che entra tutto e di più e magari entri con un problema e esci peggio. Al Ser.D. ho trovato un aiuto e senza troppe chiacchiere che a zero rimani se no (…) Mi ero stancata di sbattermi per niente (…) che mica è più come prima manco la roba e più come prima (…). Ora sto meglio però non è facile perché io sto dove stavo prima, cioè abito sempre nella stessa zona (…) quando ti fai una nomina sempre quella è pure che cambi (…) sempre drogata sei (…). Ti devo dire che non ci penso alla roba?Non ti voglio dire cazzate (…) ci penso e pure spesso(…) me la faccio passare o parlo con qualcuno (…) da solo non vai da nessuna parte o cioè vai sempre là.”

 


 

 

Area “Violenza sessuale”

 


 

 

Sonia

 

Per me la violenza più brutta è quella che fai sui bambini (…) gli sembra un gioco ma non è per niente un gioco (…) Io avevo 10 anni più o meno. Mi veniva a prendere da scuola il marito di una sorella di mia madre (…) no che non sapevo quello che ti poteva capitare però non pensavo che era proprio quello che mi capitava, mi spiego? (…) Mi diceva di non dire niente a nessuno se no non mi poteva venire a prendere più e dovevo tornare a casa da sola e questa cosa era pericolosa (…) Hai capito?! Quella era pericolosa! (…) Io lo sapevo che non andava bene, che quello era sbagliato (…) per fortuna se ne andò sopra- al nord- fuori e poi non mi sono trovata più da sola con lui (…)mi ero fatta grandicella e capivo meglio(…) tutto è durato meno di un anno” - Sonia fa una lunga pausa in cui sembra tornare indietro nel tempo, con i ricordi, chiede se può fumare, si accende una sigaretta.

 

Non ne ho parlato con nessuno nemmeno con mia madre (…) con lei non ho proprio confidenza di niente (…) dopo tanti anni ho parlato di questo fatto con una psicologa (…) poi non l’ho più vista, mi sembra che non lavora più nel Ser.D.(…) che poi se parli una volta dopo ti vieni più facile.

 

Secondo me la famiglia è il posto più pericoloso perché vai alla leggera nel senso che non ti puoi immaginare che proprio una persona di famiglia invece è proprio al contrario (…) Secondo me è difficile che racconti quello che hai passato perché non te lo vuoi ricordare, cioè te ne vuoi dimenticare (…) a me questa cosa mi veniva bene quando bevevo (…) all’inizio che poi nemmeno con l’alcol riesci. È una cosa ti porti addosso che te la vuoi strappare (…) ti fai male ma sempre là sta per questo io a chi fa queste cose gliela facevo pagare amara amara.”

 


 

 

Daniela

 

La violenza è sempre negativa se poi te la prendi con chi è più debole allora sei proprio bastardo (…) io ti dico rispetto all’uomo ma vedi che ci sono anche tante donne e comunque questa ricerca la dovete fare pure per gli uomini (…) non ti credere sai quanti ne stanno?! Per qualcuno o maschi o femmine è uguale sempre piccoli sono (…) Io ho risposto sì che ho avuto violenza però tieni conto che un po’ l’ho voluto (…) cioè ti voglio dire che è diverso quando sei grande e puoi capire (…) Io quando mi dovevo fare non capivo più niente e allora ti può succedere che trovi quello che si approfitta (…) Che poi ci pensi però in quel momento pure te ne freghi, cioè voglio dire che è più importante che ti fai e poi pure che vai alla polizia che ti devono dire che sei drogata e arrivederci e grazie! (…) manco ti pensano (...) Già te la devi vedere da sola se non ti trovi qualcuno. Quando ti fai stai fuori da certe situazioni (…) ci sono altre leggi - Daniela fa una pausa controllando il display del cellulare sebbene l’abbia spento all’inizio dell’incontro- (…) Mica solo la polizia la pensa così tutti (…) se ti inietti la roba tutto il corpo è marcio (…) ti posso dire una cosa quando cerchi i soldi li trovi quelli che non si schifano (…) assai ne stanno pure con il seggiolino dei bambini in macchina (…) di più di tutti questi mi fanno schifo.”

 

Daniela guarda l’orologio, ribadendo la necessità di non fermarsi ancora a lungo, aggiunge: “Comunque vedi quello che sta succedendo ancora non hai visto niente (…) queste vanno con i vecchi e quella non è una violenza?! (…) che se lo fanno solo per comprarsi cose e secondo me pure la cocaina (…) che queste cose non le dicono alla televisione (…) più hai bisogno, più sei debole e più si approfittano tutti.”

 


 

 


 

 

Il dolore al femminile

 

Nella tossicodipendenza al femminile si annidano problematiche e dolori che finiscono per renderla particolarmente complessa. Un po’ come dire che ai “guasti” relazionali originari si aggiungono ferite emotive capaci di lasciare segni profondi.

 

E’ indiscutibilmente femminile la prerogativa di dare origine a nuova vita, sebbene tale elemento finisca per pagare un prezzo altissimo in termini di alterità immaginata e vissuta quando ad essa si unisce l’esperienza della violenza sessuale subita.

 

Il più grande tradimento perpetuato a danno della donna nella tossicodipendenza, è proprio da ascrivere a quel senso di onnipotenza che finisce per annullare, rendendoli inutili e superflui, i legami.

 

Non meno importanti sono le conseguenze legate al senso di sottomissione, di solitudine, di ansia, all’impossibilità di intessere legami stabili e duraturi barattati con più problematici rapporti totalizzanti, esclusivi sino alla vera e propria simbiosi.

 

Le sostanze diventano l’oggetto d’amore ideale e allo stesso tempo grembo-riparo dalla possibilità stessa del tradimento e della sofferenza e profanazione di sé e della propria capacità di dare nuova vita.

 

La sostanza diviene madre e figlio in una complessità che, come da etimologia, intesse insieme il dolore di oggi con quello di ieri, la donna che è stata con quella che è.

 

Non sembra esserci spazio per quello che sarà o che potrebbe essere. Il tempo futuro è quello che raccoglie meno interesse dalla donna tossicodipendente e, con buona probabilità, poca speranza.

 

Come tutte le questioni complesse, le letture così come le soluzioni non possono essere semplici e ancor meno banali. E’ necessaria una lente multiparadigmatica e multidisciplinare che metta insieme non solo competenze tecniche ma anche abilità del vivere. Significa far salire sulla scialuppa terapeutica la rete parentale e amicale, le istituzioni, i servizi, la cultura nel suo insieme.

 

La via d’uscita non può non passare attraverso la rivisitazione in chiave cognitiva, psicologica, affettiva e culturale sia in chiave personale che relazionale.

 

Il ben-essere di un qualsiasi individuo parte dalle sue prime esperienze di quel meccanismo che definiamo socializzazione e che altro non è se non la possibilità per l’individuo stesso di farsi essere sociale. Per tale ragione la possibilità di ricevere messaggi significativi sul piano affettivo da quelli che, citando Winnicott e Bion, potremmo definire genitori “sufficientemente buoni”, assume una valenza fondante nella costruzione della personalità.

 

Ferite riportate in questi frangenti sono capaci di fissare imprinting negativi che possono aprire ad ulteriori esperienze segnanti. E non si tratta solo di violenze fisiche e psicologiche ma anche di abbandoni, deficit dell’accudimento, strappi identitari e di identificazione.

 

La donna segnata, ferita, violata sarà costretta a fare i conti con il diniego con e, spesso, dell’Altro.

 

La donna con un così grande bagaglio di sofferenza frequentemente sceglierà, anche se non consapevolmente, ancora la sofferenza. Come partner e come genitore. Più in generale come donna.

 

Si esporrà alla possibilità di subire sempre nuovo dolore nell’alterata percezione di sé come di persona indegna d’amore, fragile o peggio ancora incapace.

 

Per quanto riguarda la rappresentazione del “tu”, questi appare sempre un pò minaccioso e, spesso, una figura da cui dipendere.

 

Per quanto riguarda il “noi” magari è prima idealizzato, poi boicottato sino ad essere completamente rifiutato.

 

Generalmente sono tre gli atteggiamenti di fondo agiti nelle relazioni:

 

- distacco forzato (o voluto);

 

- invischiamento e complicità;

 

- ambivalenza.

 

Il distacco è la conseguenza immediata per una sorta di autoprotezione dal male, per una

 

sicurezza che la donna prova a dare a se stessa. Di fatto questo distacco diviene distanziazione. Quest’ultimo atteggiamento significa “saper prendere le distanze” non solo dalla persona che ha creato un danno, ma dal problema stesso e, per fare ciò, occorre un profondo e complesso lavoro su di sé.

 

L’invischiamento è complicità. Spesso ci si sente prigionieri e vittime dei propri aguzzini, che non è solo l’abusante ma spesso quanti vivono intorno. Sembra manifestarsi, cioè, una difficoltà a distaccarsi con il conseguente rischio di continuare a interagire con l’ambiente che genera mal-essere, nella difficoltà di riuscire ad andare “oltre”. Conseguenza diretta a questo subdolo meccanismo non può non essere un’iniziale frustrazione, cui fa seguito depressione, in un coacervo di emozioni, sentimenti, eventi gravidi di profondo dolore.

 

Spesso esito finale è il delinearsi e la convivenza obbligata con una sorta di ambivalenza, che non aiuta il percorso di denuncia e richiesta di aiuto.

 

La coppia è caratterizzata, di frequente, da rapporti di amore e odio, pesantemente duali che non solo segnano di disfunzionale la relazione ma non producono un ambiente favorente l’educazione e lo sviluppo dei figli.

 

E’ assai frequente, poi, che una serie di fattori entrino nel meccanismo alleggerendo o definendo di ulteriori difficoltà la problematica già di per sé complessa.

 

Le donne che si prostituiscono, infatti, rischiano di più di quelle che non lo fanno, le donne che usano esclusivamente eroina, considerata la maggiore gestibilità della sostanza, sembrano governano meglio i fattori di rischio rispetto a quelle che utilizzano cocaina o sono policonsumatrici .

 

Le donne con strumenti socioculturali e formativi più elevati rischiano meno di quelle che ne dispongono in misura minore; quelle economicamente più agiate hanno sistemi di protezione più definiti rispetto a quelle più emarginate socialmente ed economicamente.

 

Sesso, droga e violenza, considerata la loro redditività culturale sono ricercati come merci dal mondo dell’informazione, nei soli termini, però, della notizia e dell’effetto, soprattutto quando intaccano l’idea preconfezionata della donna

 

Paradigmi semplicistici e banalizzanti che, troppo spesso, nulla hanno di reale sensibilizzazione alle problematiche e di attenzione tesa alla tutela della donna.

 

A chi spetta, dunque, il compito di provare ad invertire la tendenza se non a quella parte sana della società? E non all’interno dei Servizi, sempre più segregati, burocratizzati e immobilizzati da una resa produttiva i cui criteri andrebbero ridiscussi.

 

Sono le donne e gli uomini consapevoli, decisi a sottrarsi alla barbarie post moderna, ad essere chiamati a fare cultura, rimuovendo quegli ostacoli del sentito prima ancora che dell’agito, da intendersi come sensibilità al vissuto.

 

Ci sarebbe da auspicare un patto tra generi e più ancora un patto di genere.

 

Le donne costantemente indotte, da tutta una cultura di massa che ne esalta solo giovinezza, bellezza e fertilità, a confliggere tra di loro, divise quasi meccanicamente per classi di età, dovrebbero provare a coalizzarsi in una solidarietà protettiva.

 

Dovrebbero rinunciare a quell’atteggiamento ancora presente trasversalmente per il quale il valore di una donna passa attraverso il valore del suo uomo.

 

Dovrebbero riappropriarsi di quel potere nella socializzazione primaria che sa farsi educazione, imitazione a fronte di un condizionamento (inculturazione) culturale che le vuole tutto tranne che se stesse.

 

I ricavati della vendita del libro “Con i tuoi occhi. Donne, tossicodipendenza e violenza sessuale” sono destinati all’allestimento di uno spazio dedicato alle pazienti del Dipartimento Dipendenze Patologiche proprio con l’obiettivo di provare a lavorare sul valore di sé. Non si tratterà di uno spazio terapeutico in senso stretto. Non sarà richiesta alla donna che aderirà all’iniziativa di parlare del suo vissuto per rielaborarlo ma di partecipare ad un’esperienza di gruppo che possa farla sentire meno sola con e tra le donne.

 


 

 


 

 


 

 

Bibliografia

 


 

 

Lacatena A.P., Dal tossicodipendente de jure alla persona de facto, Giuseppe Laterza Edizioni, Bari, 2010

 

Lacatena A.P., Con i tuoi occhi. Donne, tossicodipendenza e violenza sessuale, Franco Angeli Editore, Roma, 2012

 


 

 


 

 

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