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Ogni ricerca di verità si fonda sulla distinzione, preventivamente ammessa e accettata, tra Io e Altro. Nel rispetto di questa cartesiana dicotomia è impensabile conoscere e ancor più prevedere ciò che si connota di Infinito. Eppure una tale complessità (l'essere umano) non registra a tutt'oggi la piena consapevolezza di chi, per svariate ragioni, con la stessa è chiamata a confrontarsi. La società attuale ricerca le sue verità, rivendicando a gran voce una scientificità fatta di numeri e ricerche nel segno di un'infallibilità impraticabile per il solo fatto di riferirsi all'umano. Le neuroscienze si bardano di autoreferenzialità con la pretesa di spiegare così il dolore, il piacere, il legame, la rabbia, ecc. Quando la strada appare sbarrata dall'inevitabilità del fallimento data da una simile prospettiva, ecco che le scienze esatte chiedono ben più di un sostegno a quelle sociali. Ecco che, per il solo fatto di non esserci dietro neuroni e cellule, queste stesse scienze, però, non sono percepite come scientifiche. Assistere a corsi di formazione, convegni o dibattiti in ambito socio-sanitario significa partire da interventi di professionisti sanitari che virano in corso d'opera verso le scienze sociali, come se questo ambito fosse il refugium per l'inspiegabile o quanto meno tale proprio perché sociale/umano. Mi chiedo perché un sociologo non potrebbe esprimersi in ambito sanitario e un sanitario può ricorrere al pensiero sociologico senza conoscerne teorie, assunti, pratiche e metodologie? Perché quando si parla di persone e servizi socio-sanitari è la classe medica, per gentile concessione al più gli psicologi/psicoterapeuti, a doverne vantare una sorta di supremazia epistemologica? Il disagio sociale sembra sempre più una malattia da curare con prescrizioni e farmaci, ma chi ha stabilito tutto ciò? Quanta responsabilità c'è in questo da parte dei sociologi che operano nella sanità? Un paziente non può dialogare con un sociologo (dirigente dell'area tecnica) senza scatenare di frequente l'irritazione degli operatori sanitari. Ci sarebbe da chiedersi se al riparo dalle viste, questi ultimi non facciano, dopo aver espletato con rigore e professionalità i propri compiti, anche e durante immaginazione sociologica e nel peggiore dei casi sociologia da salotto. Ci sarebbe da chiedersi se i fenomeni, più o meno medicalizzati, non si siano modificati nel tempo, assumendo caratteristiche differenti. In tal caso, chi analizza, spiega, rimarca i tratti più problematici a coloro che sono chiamati a intervenire, accogliere, curare? Perché i servizi continuano a pensare di poter fare a meno della specifica conoscenza e della ricerca in merito a problemi a fortissima valenza e ricaduta sociale? Correva l'anno 1998 quando uno dei più grandi sociologi italiani, Alberto Mielucci, ridefiniva nel più ampio quadro della discussione sul metodo delle scienze sociali, il concetto di scientificità in sociologia. «L'atteggiamento monista del naturalismo verso le procedure metodologiche è stato sostituito da una concezione pluralista circa le regole e procedure della scienza. L'individuazione di leggi di validità universale ottenute per via di verificazione non è più considerata lo scopo unico ed esclusivo delle scienze sociali, ma l'attenzione si è spostata sulla costruzione della teoria come principale obiettivo della scienza (...). Si modifica contemporaneamente l'atteggiamento verso la percezione e l'osservazione, con l'accento messo sul ruolo della teoria. le teorie sono a loro volta costrutti discorsivi e i dati, sia quantitativi che qualitativi, assumono il ruolo di garanti delle argomentazioni nel processo di costruzione di teoria. La scienza come campo di argomentazione e come sistema aperto alla discussione implica in modo crescente l'accettazione della sua dimensione multiparadigmatica e multimetodologica.» (Mielucci, A., Verso una sociologia riflessiva, ricerca qualitativa e cultura, Il Mulino, Bologna, 1998, pp.30-31) La particolare complessità dei processi sociali rimanda, dunque, all'interdisciplinarietà, soprattutto rispetto alle altre scienze umane, non rinunciando all'epistemologia, alla matematica, all'economia, alla demografia, ecc. La critica all'identificazione positivistica del metodo scientifico prende il suo avvio con lo storicismo tedesco e i concetti weberiani di esperienza vissuta (Erlebnis) e comprensione (Verstehen) che puntano l'attenzione sulla necessità dell'interpretazione delle motivazioni e degli effetti dell'azione degli attori sociali. Se in passato, e non specificatamente in ambito positivista, si riteneva la scienza fisica come indagine certamente obiettiva e attendibile dei fatti, supportare un tale concetto oggetto sarebbe a dir poco ingenuo. La fisica quantistica di Plack, le teorie di Albert Einstein sulla relatività, e il principio dell'indeterminazione di Heisenberg hanno, infatti, portato alla piena revisione del rapporto teoria-fenomeno. Ben più congrua e moderna è la concezione di una conoscenza che procede per approssimazioni, nel pieno rispetto dell'importanza di elementi come la motivazione, il linguaggi, i significati. Non si può, dunque, pensare di studiare l'uomo e le relazioni sociali escludendo, quando non sacrificando del tutto, il fattore umano sull'altare di una presunta scientificità fatta solo di numeri e grafici. Ci sarebbe da chiedersi qual'é il peso che ad oggi viene riconosciuto a una disciplina così ampia e ricca come la sociologia ai fini della lettura dei fenomeni sociali e delle conseguenti azioni di politica, programmazione, intervento. Ci sarebbe da chiedersi quanto i sociologi, soprattutto in ambito socio-sanitaro, siano in grado, loro per primi, di uscire dall'alveo attribuitogli da un'organizzazione del lavoro e, più ancora della conoscenza, miope e poco attenta. Come si può pensare, pur in un Paese scarsamente in grado di operare in termini di programmazione a lungo termine, di comprendere i fenomeni sociali senza l'apporto della scienza che degli stessi ha fatto il suo oggetto di studio? Forse la sociologia in Italia continua a pagare il prezzo di una Facoltà che per prima si è aperta a studi di base non proprio specifici, favorendo quanti già lavoravano e hanno visto nel titolo, conseguibile anche senza frequenza, la possibilità di avanzamenti di carriera. Bisognerebbe ammettere, dunque, che molti sociologi non hanno scelto la sociologia né probabilmente ne hanno compreso profondamente obiettivi e mezzi. Forse la sociologia continua a pagare lo scotto di studi a forte impatto politico e dunque altamente scomodi. Forse questa disciplina paga quella parte di italian style a forte connotazione superficiale e grossolana che non conosce più il desiderio e il bisogno di sapere, conoscere, approfondire. Forse una delle tre. Tutte e tre. Probabilmente questo e molto altro ancora. Nei servizi socio-sanitari sembrano scontrarsi, dunque, più che incontrarsi, certi slanci mirati al conseguimento di vere e proprie supremazie che privano le problematiche delle loro peculiarità fondamentali, ossia la multifattorialità e multiparadgmaticità. Il rischio è oscillare tra il sapere senza vita del tecnicismo che rassicura e la vita senza sapere di un'assistenza che si fa nient'altro che maternage. Non si può intervenire senza comprendere. Fenomeni come le dipendenze patologiche, il bullismo, l'articolazione sempre più complessa della famiglia moderna, necessitano del sapere delle neuroscienze ma anche e soprattutto di quello delle scienze sociali. Non si conosce l'essere umano escludendone la sua soggettività. Le scienze sociali, o della cultura, si collocano in maniera equidistante da scienza e umanesimo, senza la precisa consapevolezza, però, di continuare maldestramente a oscillare tra i modelli teorici di Emile Durkheim e quelli di Max Weber, rinunciando alla prerogativa del dubbio al fine di garantirsi la piena accettazione nell'olimpo delle discipline della presunta ( e solo tale) esattezza. La sociologia della traslazione (più o meno pedissequa) del metodo scientifico universale al regno dei "fatti sociali" e dell'antipositivismo weberiano che non intende fermarsi alla spiegazione, ricercandone cause e correlandole agli effetti, dovrebbero provare a uscire dalle secche comprendendo, individuando e interpretando i significati, ma soprattutto non prestandosi al discredito, spesso auto-prodotto dagli stessi sociologi. In una intervista recente, rilasciata a Riccardo Stagliano, comparsa su Repubblica nel settembre di quest'anno, il massimo esponente della corrente della Critica sociale, Zigmund Bauman ha ricordato come un naturalista può descrivere tutto di un albero ma non, e per ovvie ragioni, come lo sente si senta. Cercare di capire l'oggetto del suo studio, dovrebbe essere per lo scienziato sociale polacco, il lavoro del sociologo. In estrema sintesi se l'Erfahrung (ciò che mi è successo) può essere descritto dall'esterno, in termini soggettivi, l'Erlebnis (qualcosa che ho vissuto) può essere compreso solo attraverso i racconti, i pensieri e i sentimenti del soggetto. Non tutto può essere calcolato, previsto, indirizzato. E questo dovrebbe essere chiaro alle scienze che fondano il sapere sulla dicotomia soggetto-oggetto. In quelle sociali, sebbene non è detto sia chiaro a tutti i suoi stessi rappresentanti, è la soggettività a farla da padrona, anche a costo di limitarne la portata pseudo-scientifica tanto cara alle scienze naturali. I sociologi sono spesso ridotti nell'amministrazione pubblica a occuparsi di burocrazia e scartoffie e nel settore privato a favorire sondaggi e previsioni. Nulla di più lontano da ciò che la sociologia, specificatamente, dovrebbe rappresentare oggi. Senza paure e fraintendimenti, questa straordinaria disciplina non è valida solo se prevede con esattezza quanto accadrà ma quanto pur non verificandosi ha comunque possibilità di essere spiegato. Continuare a ignorare l'utilità delle scienze sociali, significa soltanto continuare a favorire politiche sociali giocate sull'onda dell'emergenza e del rattoppo mosso all'occorrenza. C'è un gran bisogno di riscoprire o, forse, soltanto di scoprire l'importanza dell'antropologia, della psicologia sociale e della sociologia per capire chi siamo e dove stiamo andando. C'è da chiederci se lo vogliamo, se è conveniente farsi delle domande per uscire dalla grossolanità, se la ricerca esasperata di risposte, propria del periodo attuale, possa continuare a ignorare le domande senza connotarsi conseguentemente di schizofrenia cognitivo - comportamentale. Magari è un po' troppo per la nostra società. Magari è più comodo per i sociologi continuare a fare i burocrati. Magari sono preferibili grandi e penose conseguenze a piccoli ma dolorosi squarci al velo delle menzogne. Magari nulla di tutto questo.

 


 

 

 

 
La realtà complessa e il bisogno di sociologia

 

Anna Paola Lacatena

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