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Fiumi di parole sono state scritte e pronunciate su questo fenomeno che ai giorni d’oggi sta facendo continuamente e quasi quotidianamente parlare i giornali: la violenza contro le donne che spesso si trasforma in assassinio. Psicologi, sociologi, criminologi, psicoterapeuti, ognuno cerca di comprendere e di dare un modello interpretativo.

 

Ma alla fine si ha la sensazione di tornare sempre al punto di partenza.

 

Anche la stampa non perde tempo nel veicolare immagini di omicidi passionali, di omicidi originati da raptus improvvisi, oppure nel raccontare storie di gelosie, di amori malati. Tutto questo nell’immaginario collettivo facilita la convinzione che i crimini vengano commessi da soggetti patologici e malati o deviati. Ma, nella realtà dei fatti, spesso non è così e molti degli uomini che uccidono godono di ottima salute mentale.

 

La violenza verso le donne e gli assassinii possono essere distinti in due macro aree: violenza domestica (ad opera di partner, ex partner, padri e/o fratelli, o comunque familiari) e violenza operata nella comunità sociale da persone estranee.

 

Al di là del caso specifico, al di là delle riflessioni sulle dinamiche micro sociali, ovvero delle dinamiche relazionali fra i partner (nel caso di violenze entro le mura domestiche) e delle variabili contingenti che hanno influito in quella particolare situazione, forse è il caso di spostare l’attenzione ad un livello più macro sociale, ovvero ai modelli culturali che quotidianamente vengono socializzati all’interno di molte famiglie, oppure veicolati dai media. Questi modelli producono e ri-producono pregiudizi e stereotipi sulle donne e immagini apparentemente “naturalizzate” degli uomini, ovvero mettono in evidenza la loro virilità, la superiorità fisica e mentale, il diverso ruolo svolto (o che dovrebbero svolgere) all’interno della comunità sociale e delle famiglie.

 

Tanto per fare un esempio, l’atteggiamento e le affermazioni del parroco di Lerici sul femminicidio e sulle donne in genere, si iscrivono all’interno di quei modelli culturali che veicolano diverse concezioni dell’uomo e della donna, che portano alla diversa costruzione dell’identità del maschio e della femmina e che tendono a porre la figura femminile in una situazione di sudditanza e dipendenza. Sono modelli culturali che ci giungono dal passato della nostra storia sociale e culturale ma che, in alcuni casi, godono ancora di ottima salute. Sono modelli culturali che non vogliono prendere atto del cambiamento, che non tollerano la rivoluzione culturale, avvenuta soprattutto ad opera delle donne negli ultimi 50/60 anni, che ha portato ad una trasformazione del loro modo di percepirsi nel mondo e di costruire la propria identità. Una identità che prima era loro negata.

 

Questi modelli celano dei valori specifici, veicolando modelli di comportamento e concezioni condivise su ciò che è maschile e su ciò che è femminile.

 

Al maschio vengono veicolati determinati valori come il potere, la proprietà (un concetto che spesso si estende fino alla proprietà di un corpo, quello della donna); alla femmina ne vengono veicolati altri come la sottomissione, il rispetto, la neutralità rispetto alla propria vita e alle proprie scelte.

 

Il potere è sempre stato un valore fondamentale per l’identità maschile, ma non per l’identità femminile.

 

Basta guardarsi intorno per comprendere quanto ancora oggi il mondo degli uomini sia permeato da questo valore fondamentale per la loro identità. Pensiamo alla politica, pensiamo alle disparità nel ricoprire incarichi dirigenziali nel mondo del lavoro, ma pensiamo anche a molte offensive pubblicità televisive che in qualche modo esercitano il potere attraverso la veicolazione di stereotipi femminili ad uso e consumo degli uomini.

 

Questo diverso sistema di valori per anni ha attribuito al maschio il potere incondizionato sulle persone e sulle cose, ha favorito l’interiorizzazione di questi modelli anche alle stesse donne che lo hanno socializzato poi ai propri figli e che ha portato a percepire come “naturale” ciò che di naturale non ha proprio nulla.

 

Così appare più o meno condivisa l’idea che l’uomo è “naturalmente cacciatore”, mentre le donne sono “naturalmente selvaggina”.

 

Ma la donna ad un certo punto non ci sta. La soggettività femminile si stacca da quel mondo costruito dagli uomini apparentemente così solido e così ovvio, così pieno di stereotipi sulle donne, e inizia ad indirizzarsi verso altri orizzonti possibili di costruzione del senso condiviso, orizzonti che non intendono più tollerare con “naturalezza”, ovvero come se fossero “regole di natura”, la dipendenza e la sudditanza dagli uomini. Vengono messi in discussione gli universi simbolici precedentemente costruiti e istituzionalizzati, trasmessi attraverso massicci processi di socializzazione, al fine di legittimare quello specifico mondo sociale e quella specifica costruzione della realtà sociale.

 

E’ a partire dai movimenti di emancipazione femminile che la violenza verso le donne è in qualche modo stata portata alla luce e si è iniziata a denunciare l’asimmetria dei ruoli attribuiti agli uomini e alle donne sia all’interno della famiglia, sia nel contesto sociale di appartenenza.

 

La trasposizione dello stato di prostrazione in cui versavano molte donne nell’ambito privato diventa, con i movimenti femministi, di pubblico dominio, attraverso la socializzazione delle proprie esperienze narrate all’interno dei gruppi di autocoscienza.

 

I movimenti di emancipazione femminile spiegavano la violenza come conseguenza del potere maschile, per cui la violenza contro le donne veniva considerata una manifestazione di una disparità storica nelle relazioni tra i generi, che ha portato al dominio dell’uomo sulle donne e alla loro discriminazione.

 

L’asimmetria dei ruoli è sempre legata ai modelli culturali esistenti che definiscono quali devono essere le caratteristiche identitarie degli uomini e quali quelle delle donne, ma il potere maschile ne definisce solo un aspetto, anzi, a volte è proprio la mancanza di potere che fa scattare la scintilla omicida.

 

Inoltre, oggi, al contrario, all’interno di molte relazioni sentimentali sembra essere spesso la donna a detenere maggiore potere e l’uomo a volte reagisce probabilmente proprio a causa di una sua crisi di status, reagisce al conflitto che viene a crearsi e probabilmente anche per la sua incapacità di riposizionarsi nel mondo e di costruire relazioni significative con le donne. Per tali motivi è forse arrivato il momento di concentrare l’attenzione più sulla fragilità di molti uomini che sulle “apparenti” debolezze delle donne.

 

I modelli culturali di cui abbiamo accennato in precedenza hanno in un certo senso giustificato spesso, o tentato di giustificare, gli atteggiamenti violenti verso le donne. Un esempio di quanto appena detto lo possiamo riscontrare nel fatto che le violenze all’interno delle “mura” domestiche erano quasi sempre considerate “private” anche dai familiari. Un altro esempio lo possiamo riscontrare nel tentativo di colpevolizzare la donna vittima di violenza e di stupro (victim blaming), come se la cosa la donna se la fosse in qualche modo cercata. Atteggiamenti di questo tipo (rintracciabile anche nell’atteggiamento e nel modo di pensare la relazione tra i sessi del parroco di Lerici – “le donne provocano”…) sono visibili e palesi in molti di questi processi per stupro . E alla base c’è sempre il modello culturale (costruito) degli uomini “cacciatori” e delle donne “selvaggina”.

 

Al contrario, appare invece difficile immaginare che una donna possa fare qualche osservazione sul corpo degli uomini, ad esempio quando questi indossano jeans molto stretti che mettono in evidenza con chiarezza le forme di alcune parti del loro corpo. Al contrario, appare quasi impossibile sentire una donna accusare l’uomo di essere “provocante”. Questo perché se il cacciatore è l’uomo, secondo il modello culturale di riferimento, la donna non può permettersi di diventare cacciatrice. Essere un cacciatore simbolicamente significa avere un’arma in mano da usare e, quindi, avere potere di scegliere e di decidere.

 

Parliamo dunque di un pensiero primitivo, dove ad essere mancante é proprio la capacità di prendere le distanze da vecchi e obsoleti modelli culturali. E’ la drammatica incapacità di stare al passo con l’evoluzione del contesto socio-culturale di riferimento e soprattutto il tentativo di cancellare questo cambiamento con modi di pensare e di fare che ledono l’identità e il corpo delle donne.

 

Il termine femminicidio, che oggi si usa spesso per indicare una forma estrema di violenza di genere che porta all’assassinio della donna, è stato utilizzato per la prima volta dalla criminologa Diana Russell nel 1976. Il termine, come sottolinea l’antropologa americana Marcela Lagarde, vuole sottolineare il fatto che si tratta di un assassinio di genere, in contesti culturali dove la cultura spesso rafforza la concezione per cui la violenza maschile sulle donne è in qualche modo un qualcosa di naturale. Il femminicidio comprende, infatti, anche tutti quegli assassini operati dai padri su ragazze che rifiutano il matrimonio che viene loro imposto o che, comunque, vogliono controllare le loro scelte sessuali. Il femminicidio è un concetto che riguarda tutte le forme di discriminazione e violenza di genere che sono in grado di annullare la donna nella sua identità e libertà.

 

Il femminicidio è un assassinio che spesso si consuma all’interno delle mura domestiche ad opera del proprio partner o ex partner. Questo significa che i maggiori fattori di rischio per la donna sono rappresentati dai luoghi e dalle situazioni ritenute “sicure”, ovvero le mura domestiche e le relazioni con il proprio partner.

 

Ma torna sempre la stessa domanda: come mai molti uomini arrivano a commettere un femminicidio?

 

Per dare una risposta concreta bisogna ripartire sempre da lì, dai modelli culturali, oltre che dalla constatazione che molti uomini non accettano questo processo di autodeterminazione sempre crescente delle donne. Il vero problema da affrontare non riguarda propriamente le donne (considerate deboli un po’ in tutti gli articoli giornalistici che parlano di violenza verso di loro), ma la fragilità di molti uomini che spesso sono incapaci di creare relazioni significative e paritarie con le donne.

 

Molti uomini sono incapaci di riposizionarsi all’interno del tessuto sociale e rispetto alla nuova pressa di coscienza delle donne e alla loro sempre maggiore acquisita visibilità. Molti uomini non riescono a ri-pensare la propria identità sociale.

 

Questo crescendo di omicidi ne sono un chiaro sintomo, ma sono anche la manifestazione di una profonda fragilità agìta attraverso atteggiamenti di potere e di violenza. E questa “deformità” viene coperta sempre da atti di vigliaccheria pura, perché non possono essere considerati diversamente quegli atti che vedono alcuni uomini aggredire con armi alla mano donne disarmate, oppure agendo alle spalle di questa, oppure intraprendendo atteggiamenti violenti di gruppo. Questo potere momentaneo e apparente trova la sua forza proprio nel sostegno di atteggiamenti vigliacchi e la vigliaccheria caratterizza la personalità di una persona debole e fragile, che non si vuole mettere in discussione, che non vuole accettare il cambiamento, che vuole per forza controllare e sentirsi proprietario della libertà altrui.

 

Tutte queste forme di violenza (oggi ce ne sono anche di nuove) sono il segno di un enorme disagio sociale, dell’evidente incapacità di molti uomini di stare al mondo al fianco di altri esseri pensanti che sono semplicemente diversi da loro, in un ordine simbolico che ormai con la parola “uomo” non intende più tutto il genere umano, ma semplicemente il singolare maschile presente sulla terra.

 

Ed è arrivato ora il momento di concentrare gli studi sociologici anche e soprattutto su questo aspetto, focalizzando l’attenzione proprio sugli uomini, perché é l’identità maschile che deve essere messa in discussione e, insieme ad essa, la conseguente precarietà e insicurezza del loro corpo.

 

Inoltre, anche parlando di prevenzione (oggi se ne parla molto) bisogna tener presente che tutte le azioni che possono essere messe in atto per tutelare le donne non possono prescindere da un lavoro di decostruzione e ricostruzione dei significati che i vari contesti socio-culturali hanno attribuito fino ad ora al maschile e al femminile.

 


 

 

Bibliografia

 

Bettoli R., La società contemporanea e le nuove forme di violenza verso le donne, in (a cura di) Valsecchi P, “Cambiamenti sociali e nuove forme della violenza”, Franco Angeli, Milano, 2006

 

Fregoso R., Bejarano C., (editors), Terrorizing women. Feminicide in Americas, Duke University Press, 2010

 

Magnante P., Il mondo dell’ovvio. Il concetto di senso comune da Simmel a Pirandello, Firenze Atheneum, 2001

 

Spinelli B, Femminicidio. Dalla denuncia sociale al riconoscimento giuridico internazionale, Franco Angeli, Milano, 2008


 

 

FEMMINICIDIO, VIOLENZA E FRAGILITÀ DEL GENERE MASCHILE

 

Parizia Magnante

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