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La crisi economica che attanaglia l’Europa altro non traduce che la crisi della politica e più ancora quella della cosiddetta rappresentanza cui faceva cenno Rousseau già nel XVIII secolo.

 

Siamo chiamati ad esprimere le nostre preferenze (sistema elettorale permettendo) per farci governare da rappresentanti lontani dai contesti concreti e quotidiani e totalmente svuotati di un potere di fare e decidere che hanno, da tempo, il loro punto focale altrove. La realtà economica e finanziaria, mai come in questo periodo, concentra nelle proprie mani il potere decisionale globale, fatto passare in modo comico e colpevole come ancora influenzabile in chiave locale.

 

I politici europei procedono, e in questa prassi svettano quelli italiani, sfornando manovre su manovre come allegri amministratori di condominio in cerca di fondi come se non esistesse un fondo oltre il quale non è più possibile andare.

 

Se ottimisticamente ogni baratro riserva sempre un’altra possibilità, c’è da porsi non una domanda ma la domanda: Cosa fare?

 

Semplicisticamente, bisognerebbe interrogare l’oculata casalinga di Vercelli, la quale non esiterebbe a rispondere che la “casa” non può andare avanti lì dove le uscite sono più cospicue dell’entrate. Lì dove chi amministra il budget predispone sempre la fetta maggiore per sé e per i propri cari (il noto familismo amorale di Banfieldiana memoria)…nella fattispecie non l’intera “famiglia” ma qualche componente ad essa più vicina.

 

Non si può, dunque, risolvere le questioni globali attraverso le politiche locali, così come il maÎtre à penser del nostro tempo, il sociologo Zygmunt Bauman, suggerisce ma, con buona probabilità, non si può risolvere una crisi globale senza riprendere quei principi che da sempre hanno mosso di buon senso il locale più locale, ossia ogni singola casa.

 

I principi dell’economia moderna, alleandosi contro la coscienza individuale, hanno finito per tradire l’uomo e la sua possibilità di futuro. Un’economia non sostenibile è per sua stessa definizione insostenibile.

 

Sentir parlare la generazione ( a dire il vero piuttosto dilatata) dei baby boomers , ossia quelli nati tra il 1946 e il 1964 e vederli con animo sofferente scusarsi con le nuove generazioni per aver minato ogni desiderabile domani è fastidioso e ancor più irriguardoso dello stesso agito. Ben vengano le scuse ma la domanda è cosa se ne faranno di tanta sincera (?) contrizione d’animo le nuove generazioni senza una reale volontà di porre rimedio, senza il ben che minimo sforzo orientato al risarcendo delle vittime.

 

Troppo comodo dire “scusate, abbiamo sbagliato”, magari continuando a fare di peggio e senza neppure il buon gusto di ammettere che a illuminare il cammino è il principio, assai poco profondo, del “vediamo un po’ come va a finire”.

 

Tra l’altro, l’Europa non può più contare sulla sua supremazia militare, considerata la spesa statunitense annuale in armamenti pari a quella totale dei 24 paesi dell’Unione Europea unitamente all’emergere di potenze come l’India, la Cina, il Brasile in grado di contendersi il primato di “polizia” mondiale.

 

Lo stesso vecchio continente non può più vantare il ruolo di fucina dell’innovazione e neppure il primato della produzione industriale. Non è centro di un mondo che conosce ormai tante centralità, molte delle quali legate all’immaterialità della comunicazione. Non è periferia di un sistema globale che spesso utilizza l’UE a mo’ di cuscinetto tra il centro nevralgico e decisionale e le infinite periferie, per altro tra loro tutte abbastanza simili.

 

Rimane poco, dunque, del lustro (?) delle colonizzazioni, della rivoluzione industriale, di quella francese e della ragione. Quel che rimane, però, andrebbe utilizzato al meglio.

 

Quel melting pot in cui il vecchio continente si è trasformato è una delle poche vie d’uscita alla crisi politica e di democrazia che la globalizzazione ha sospinto.

 

Il fattore umano vilipeso dalla scienza come ostacolo ad una perfezione mai veramente raggiungibile in ragione proprio del fatto che chi la persegue è uomo, può davvero rappresentare il punto di svolta.

 

Quando si parla di uomini, ben inteso, fuori da ogni possibile e insensata classificazione, sarebbe opportuno guardare al pilastro più fragile per verificare la tenuta dell’intera costruzione sociale.

 

Dunque, l’Europa dovrebbe prendere atto del bisogno degli esclusi e della grande potenzialità che negli stessi si annida. Evidentemente non come nuova frontiera dello sfruttamento ma come reale capacità di un dialogo e di un’integrazione capace di rispetto per le differenze, provando a sviluppare concretamente la solidarietà.

 

Sul piano tecnico, del pensiero, dell’opportunismo è certamente possibile rinvenire nuove strade, cercando qua e là di trovare nuovi territori da dare in pasto a quella sete di profitto che ha frullato in una sorta di mix energetico (per l’assuntore) ogni più importante elemento di anti-invecchiamento e di anti-radicali liberi per un liberismo di facciata quasi completamente amorale.

 

E’ bene che il paziente acquisisca l’informazione del suo decesso, sebbene sopravvenuto lo stesso il paziente stesso cessa di esistere.

 

Ecco perché ogni manovra finisce risucchiata in un accanimento terapeutico prodotto al capezzale di un agonizzante per chi decide le terapie, di un deceduto per chi le vede somministrate.

 

Figli della rivoluzione dei Lumi, fermi credenti nella tecnica e nella scienza (compresa quella economica) ecco che la soluzione può venire da chi è scienza ma mai si sognerebbe di pronunciarsi oggi e per sempre, connotandosi con protervia di esattezza (per qualsiasi scienza tutta da dimostrare).

 

La fisica quantistica di Planck, il principio della relatività di Einstein, quello dell’indeterminazione di Heisenberg ci hanno dimostrato che si conosce per approssimazione e che la verità è sempre multiparadigmatica e multimetodologica.

 

Tutto ciò per perorare quanto la filosofia morale, la sociologia, l’antropologia, la psicologia sociale ci suggeriscono. Scienze che guardano all’uomo e ai suoi bisogni (che fortunatamente non si esauriscono ai consumi). Scienze che suggeriscono l’incontro con l’Altro come viatico salvifico ad una crisi che non è, né potrebbe essere solo economica e finanziaria. Scienze che esigono magari un approfondimento a cui il cittadino globale non sembra essere , però, più tanto abituato.

 

Non si tratta di pensieri inapplicabili, di evanescenze poco utili alla crociata rivolta alla salvezza del nostro "conticino" in banca. Si tratta di considerazioni scomode ma non meno scientifiche.

 

L’etica e la morale non sono il diversivo dell’homo ludens, le stesse non distraggono dalle problematiche. Mai come in questi attuali frangenti li sollevano, formulando, peraltro, le soluzioni.

 

Niente numeri, niente statistiche, niente borsa, spread, titoli di stato. Niente di tutto ciò.

 

A questo l’uomo allineato e massificato non può che rispondere…non ora. Ora ho cose più importanti a cui pensare.

 

Se l’Europa non può più ambire al primato su armamenti e produzione, sulla sfera della decisionalità globale, la stessa può porsi a capo di un movimento di risanamento culturale e morale, proprio alla luce di un bagaglio di conoscenza e sensibilità che nessun altro continente può vantare.

 

Proprio alla luce di quella straordinaria ricchezza che discende dalle differenze che in essa si sono sviluppate e che ancora oggi trovano ospitalità.

 

Il vecchio continente serba in sé, dunque, la vera potenzialità per uscire dalla crisi globale, ponendosi a capo di un movimento che non necessita di scendere nelle piazze per protestare ma per riappropriarsene, ritornando a viverle.

 

La paura che attanaglia il cittadino della post-modernità è suggerita da una minaccia esterna (l’Altro, il barbaro, lo straniero) ma anche interna alla sua stessa fortezza.

 

L’Europa non è più pericolosa oggi di quanto non lo fosse cinquant’anni fa. E’ l’attribuzione delle responsabilità che ci vede nemici di quanti vengono da oltre i nostri confini ( e non solo territoriali). Le nostre paure, le aspettative di un futuro sempre più incerto ci inducono a cercare conferme alla nostra sensazione di pericolo. A cercare e trovare, impropriamente, colpevoli del nostro stato di insicurezza.

 

Non si può pensare, infatti, di non prendersi cura degli esclusi, di quanti si collocano (o sono collocati ai margini del sistema) senza dover fare i conti prima o poi con gli stessi, fosse anche il doverli considerare esistenti.

 

E si tratta di persone con problematiche socio-sanitarie, economiche, giuridiche. Si tratta di quegli stranieri che facciamo fatica a pensare simili a noi.

 

Se più di qualcosa a tal proposito è stato fatto, si fa necessario, adesso, il passo successivo ossia non una piena e reciproca assimilazione che prevede un up e un down culturale ma una coesistenza capace di rimarcare le differenze che non sono disuguaglianze ma quella ricchezza propria della diversità.

 

Non un pensiero comune per un consenso di tutti ma il diritto ad essere chi siamo, ciascuno nella propria autenticità. Essere uguali perché diversi.

 

In questo principio sembra esserci un po’ di quel rimedio che cerchiamo, però, percorrendo, se pur delusi, le strade della tecnica e dello scientismo.

 

Prendersi cura del futuro e non solo temerlo ansiogenamente significa prendersi cura di quanto accade in questo istante. Non ci saranno frutti da raccogliere domani diversi dai semi impiantati oggi.

 

Il danno cagionato alle nuove generazioni è sì quello che si registra nell’attuale ma chiedere scusa non è sufficiente se chi ha danneggiato (quasi tutti) non promuove un suo personale rinnovamento in termini di modus pensandi e vivendi.

 

Da qui la necessità di quelle discipline che possono fornire una lettura complessa di e ad una società complessa.

 

Non è curando il sintomo, di cui i nostri politici sono portatori insani, che si può ipotizzare di uscire dalla crisi ma guardando ala malattia che ha molto da sottoporre all’attenzione delle scienze sociali e della filosofia morale.

 

Nessuno può dirsi immune. Nessuno può dirsi diverso, nella sua accezione più nobile e meno screditante, senza una base comune di diritti umani. Comprendere questo significa rinunciare alla cura autoctona e patogena a cui ci siamo consegnati e comprendere che chi ci salverà non è, paradossalmente e poco romanticamente, chi ci è più vicino.

 

Un immigrato ci salverà… E non sarebbe la prima volta nella storia del genere umano.

 

 

 

UN IMMIGRATO CI SALVERA'

 

Anna Paola Lacatena

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